La vita e la morte di Gianni Versace nella seconda stagione di American Crime Story.
Il simbolo della Medusa, il viso severo avvolto da serpenti famelici. Gli spilloni da balia dell’iconica collezione di abiti bondage. Il tocco delicato e gentile dello stilista sui corpi delle modelle. La complicità con Donatella.
C’è molto di quello che ti aspetti di vedere su Gianni Versace in American Crime Story: L’assassinio di Gianni Versace, seconda stagione della serie antologica ideata per la FX da Ryan Murphy, dedicata a casi giudiziari e di cronaca nera della storia moderna statunitense.
Ma, paradossalmente, non tutto. Perché del rocking Gianni (così lo definiva la stampa americana) si vede molto poco. La serie, di cui Fox Crime in Italia ha trasmesso in questi giorni l’ultimo episodio, si concentra più sul suo assassino, il californiano di origine filippine Andrew Cunanan che su Versace, giovane di belle speranze che negli Anni Settanta con il fratello Santo lasciò Reggio Calabria per aprire a Milano il suo atelier e rivoluzionare la moda e il costume degli Anni Ottanta e Novanta.
Dell’uomo e stilista (Edgar Ramírez, prova solidissima la sua, aiutata da una somiglianza fisica impressionante), vediamo molto poco: un fulmineo flashback sull’infanzia assolata a Reggio (un bimbetto dallo sguardo serio che osserva incantato la madre sarta al lavoro; Gianni che rientra da scuola in lacrime dopo essere stato definito pervertito dalla maestra), la malattia e il coming out; il legame profondo con il compagno Antonio D’Amico (Ricky Martin in una prova di grande naturalezza) e con l’amata sorella e compagna di lavoro Donatella (Penélope Cruz).
Assassinato e assassino
Come già la prima stagione, anche questa seconda è ambientata negli Anni Novanta ed è basata su un libro, Il caso Versace. La storia, i protagonisti, il mistero di Maureen Ort.
La serie ricostruisce la vicenda dal punto di vista della giornalista che ha intervistato gli amici dell’assassino e i poliziotti incaricati delle indagini, serie da cui la famiglia Versace ha preso le distanze, non avendo autorizzato il libro su cui è parzialmente basata, e che si concentra sul castello di bugie di un ragazzo (il convincente Darren Criss, protagonista di Glee) incapace di accettare la sua omosessualità ma prima di tutto se stesso e la condizione sociale della sua famiglia: una madre fragile e sottomessa, un padre bugiardo patologico.
Andrew (o meglio, l’Andrew che ci viene mostrato) è solo un bambino quando le attenzioni del padre lo innalzano su un piedistallo (“Tu sei il mio preferito”) e lo educano alla buona conversazione, all’etichetta e al lusso da cui sarà però sempre escluso.
Emblematico il penultimo episodio, tra i più intensi, in cui siamo messi al cospetto dell’animo tormentato di un giovane uomo rifiutato dal suo modello (il padre omofobo), dai compagni della prestigiosa Bishop School di San Diego, dagli amanti con cui vorrebbe (lui solo) uscire allo scoperto, da se stesso.
Eccolo così rinnegare la propria omosessualità e accanirsi (quattro volte) proprio contro gli uomini facoltosi e di successo a cui si vende, quasi in una sorta di punizione da infliggere a chi può permettersi di vivere i propri sentimenti apertamente senza suscitare sdegno. Come Gianni Versace che fuggevolmente conosce sette anni prima dell’omicidio durante un party esclusivo.
Un gioco di specchi
Versace, l’icona della moda pop, della trasgressione controllata, del rispetto costruito con il duro lavoro. Un uomo che rappresenta tutto quello a cui Andrew ardentemente aspira: potere, ricchezza, rispettabilità, fama.
Il racconto parte dalla fine, dal 15 luglio 1997: con uno scorcio luminoso e abbagliante sulla vita di Versace. Entriamo nel suo mondo attraverso un sontuoso piano sequenza che ci svela gli angoli più lussuosi di Casa Casuarina a Miami Beach. Al suono dell’Adagio in Sol Minore, osserviamo Versace attraversare stanze dagli arredi raffinati, tuffarsi in piscina, recarsi all’edicola a comprare le riviste. Lo seguiamo fino al suo ultimo respiro.
La morte ha lo sguardo freddo di uno studente dall’aspetto innocuo, pronto a freddarlo davanti al cancello di casa. L’immagine che tutti ricordiamo: lo stilista riverso sulle scale, il nastro della polizia a mettere un freno alla curiosità dei turisti.
Un incipit enfatico e barocco, carico dell’estetica di Ryan Murphy (sua la regia del pilot) a cui segue una accurata monografia del serial killer, dove il nastro si riavvolge per mostrarci l’ossessione di un ragazzo che desidera ardentemente essere accettato e ammirato fra coloro che contano.
Nove episodi in cui guardiamo nel precipizio di una mente ossessionata dai suoi miti, dallo sfarzo, dalla notorietà. Da notare anche l’ultimo episodio (Alone) incentrato sugli ultimi giorni di vita di Cunanan.
Dopo l’efferato omicidio dello stilista, a Miami la polizia mette in campo tutti i suoi mezzi e la stampa sguinzaglia i suoi inviati. Eppure, inspiegabilmente l’omicida sceglie di restare a Miami, nascondendosi in una casa galleggiante. Qui lo rinverrà senza vita la polizia, circondato da scatolette di cibo vuote e dagli schermi di tre televisori giganti, algido specchio in cui Cunanan fino all’ultimo ha riflesso la sua immagine.
Perché come dice durante un interrogatorio una delle ultime frequentazioni di Cunanan: ad Andrew non è mai interessato nascondersi ma rendersi visibile.
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