L’indelebile macchia di fango di Mudbound.
Difficile evitare la sensazione di déja-vu quando la voce di Garrett Hedlund comincia a narrare la storia di Mudbound: è quasi come (ri)sentire il Thomas Jane di 1922, altra produzione Netflix dall’ambientazione rurale.
Difficile anche non pensare ai libri di Steinbeck e alla spigolosa poetica degli ultimi che hanno consegnato ai posteri, perché di ultimi si occupa il film di Dee Rees tratto dal romanzo Fiori nel fango di Hillary Jordan.
Una vecchia fattoria
Fangoso nel nome e anche nei fatti, Mudbound ha inizio in una pozza del Mississipi alcuni anni prima dell’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.
Henry (Jason Clarke) e Jamie (Hedlund) sono fratelli di carattere opposto (come da copione) ma accomunati dall’interesse di e per Laura (Carey Mulligan) che però convola a nozze – non senza pentirsi – col primo dei due, accollandosene i fallimenti e l’inquietante presenza paterna (Jonathan Banks).
Dopodiché regna la sporcizia: dei luoghi, del corpo, delle menti. Nel fazzoletto di terra dove i coniugi McAllan si trovano ad abitare, gli afroamericani sono colored costretti a lavorare al soldo dei bianchi per pagarsi da vivere, almeno finché il vento e la radio non porteranno presagi di morte dal fronte del conflitto armato.
Ad alta voce
Nel frattempo tutti i colori della palude (fotografia di Rachel Morrison) si alternano sullo sfondo di un grande libro illustrato letto ad alta voce dagli interpreti.
Prima Jamie, poi Laura, dopo ancora Hep Jackson (Rob Morgan) e la moglie Florence (prima candidatura all’Oscar per Mary J. Blige) vengono fatti salire su un podio invisibile a descrivere nomi, cose e sensazioni della convivenza forzata (ma non del tutto ostile) che li avvince.
In Mudbound sono gli uomini rappresentanti della vecchia guardia a dare il cattivo esempio, mentre la solidarietà nasce per scelta (e mai per caso) fra le donne e i figli di casa. Perché se un terreno fangoso è riuscito a colmare una tale distanza, farà ancora di più la polvere macchiata di sangue del fronte, a cui Jamie McAllan e il giovane Ronsel Jackson (Jason Mitchell) sono indissolubilmente legati.
Colpo di coda
Pur riempiendo con cura le sue pagine, il dramma inscenato da Dee Rees non offre particolari guizzi fino a che non si sofferma sul rapporto fra i due: il reduce acclamato e quello che siede sempre in coda all’autobus.
Nella chilometrica filmografia sull’odio razziale made in USA Mudbound entra di soppiatto, senza il richiamo del biopic e con la consueta copertura del film di costume, ma sa distinguersi grazie al dirompente climax dei suoi ultimi trenta minuti.
Al netto di un finale lirico e idealista – sebbene con tutte le ragioni per esserlo – vi regalerà alcune scene capaci di farvi male come poche cose al mondo. E forse com’è giusto che sia.
Francesca Fichera
Voto: 3.5/5
L’ha ribloggato su La finestra di Hoppere ha commentato:
Mudbound – Una recensione
"Mi piace"Piace a 1 persona