A Quiet Passion: l’ombra della luce di Emily Dickinson.
Inizia dicendo che non sente come gli altri, la fulva e giovanissima Emily Dickinson di A Quiet Passion, il che basterebbe a definire la poesia e chi la pratica senza la necessità di proseguire oltre.
Invece Terence Davies ci tiene a raccontare l’intera biografia conosciuta della poetessa americana, dall’adolescenza fino alla morte – sopraggiunta per nefrite all’età di 55 anni – escludendo le tempeste d’amore, perché intorno alla sagoma sinuosa di Cynthia Nixon (la Emily matura) c’è posto solo per il sublime: la luce e l’ombra, il paradiso e l’inferno, una casa e il mondo.
Casa Dickinson
Pochi sono gli esterni, luminosi e rigogliosi, dato che l’autrice di versi preferì la bella imperfezione della sua famiglia ai contatti con l’altrui realtà. Se dunque casa Dickinson riveste il ruolo di ambientazione centrale del film è perché lo fu anche nella vita di Emily, figura di donna eternamente seduta alla finestra a cucire poesie inedite con l’esclusiva compagnia dei fiori.
Intesa come unico proscenio possibile, la dimora diventa teatro nelle mani di Davies e del direttore della fotografia Florian Hoffmeister, ammantandosi di una patinatura che tuttavia riesce a non disperdere l’intensità e la cura commovente infuse nella composizione delle inquadrature.
Il dono della scrittura
Già dalle simmetrie delle prime scene s’intuisce la qualità speciale di A Quiet Passion, che però ha da rivelarsi in un altro elemento della sua realizzazione, sempre fondamentale ma forse mai come in questo caso: la sceneggiatura.
A rendere davvero eccezionale il biopic scritto e diretto da Davies è l’uso saggistico/scientifico delle parole. Che rimette in moto, sul palco di casa Dickinson, l’essenza della vita contemplativa: i silenzi, la riflessione, le conversazioni sui massimi sistemi. E poi naturalmente le poesie.
Poco o alcuno spazio viene dato ai dialoghi di situazione ed all’azione vera e propria: i versi di Emily Dickinson hanno assoluta precedenza. Riecheggiano in voice over, sono letti ad alta voce e – cosa ben più stupefacente – sostituiscono al momento giusto le normali battute (vedi la scena col nipotino).
I doni della morte
Solo così può prendere forma il ritratto profondo di una poetessa che fu donna in tumulto e che attraversò – anche fisicamente – il tormento della contraddizione, chiusa nella sua stanza per scrivere lettere al mondo che a lei non scrisse mai, sullo sfondo di un paese spezzato dalle differenze di classe e di genere.
Ma fu soprattutto l’ambiente puritano nel quale era cresciuta e da cui era emersa stoicamente ribelle – “Facile essere stoici quando nessuno vuole quel che hai da offrire” – a finire col dividerla dentro ancora di più di quanto già non fosse.
Così morte e immortalità divennero la sua ossessione, non l’orlo ma la trama dell’esistenza e della sua scrittura, cui forse per eccesso d’amore troppo fedelmente fa riferimento A Quiet Passion di Terence Davies, trasformando la quieta descrizione di una passione in trenta minuti finali di greve (per quanto naturale) tragedia.
Francesca Fichera
Voto: 3.5/5
Un ringraziamento speciale a Lucia de ilgiornodeglizombi, che mi ha parlato di questo film spingendomi a scriverne la recensione.
L’ha ribloggato su La finestra di Hoppere ha commentato:
A Quiet Passion – Una recensione
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