Su Sky Atlantic calano sipario e buio sul 1993.
Perché una storia esista non basta che sia accaduta ma che sia stata raccontata. Quando però il racconto di una storia coincide con il racconto de la Storia, questa genesi inconfessata e straordinariamente naturale si porta con sé conseguenze tutt’altro che semplici, prima fra tutte il rischio di oggettivizzare il racconto o peggio, di oggettivizzarne proprio l’intrinseca carica soggettiva. L’idea della serie 1993 prodotta da Sky, orgogliosamente rivendicata da Stefano Accorsi, non è politicamente pretenziosa come potrebbe sembrare dal titolo, non ha nulla di brechtiano, di scomodo, di provocatorio, ma è di certo il pasto più digeribile per il pubblico affamato ed eterogeneo della prima serata.
La perdita dell’aura dei politici
Le storie dei personaggi, con la loro parabola di ascesa e fine, si intrecciano su un tessuto più cronachistico che storico, al sicuro da accuse di tendenziosità e mistificazione: gli eventi storici sono “puramente casuali” perché servono da occasione narrativa. La stessa caratterizzazione di personaggi come Berlusconi e Craxi appare più prevedibile quanto più è stereotipata all’immagine che il pubblico aveva fatto di loro in quegli anni (D’Alema ex comunista romantico, Berlusconi impavido e sornione alla vigilia della carriera politica, Di Pietro pater patriae incisivo e laconico ma meno tronfiamente compiaciuto che nella realtà).
Presentati così, nella totale neutralità psicologica, questi “mostri sacri” fanno parlare di sé solo nella misura in cui rimandano alla realtà contestuale extra-cinematografica: sono anch’essi, come gli eventi, cornice storico-narrativa messa al servizio del racconto. Tuttavia già la possibilità di drammatizzare tali mostri sacri ha determinato una impercettibile perdita dell’aura e paradossalmente,quasi una loro storicizzazione.
Consacrare qualcuno, chiunque egli sia, all’atto irreversibile del dramma, dell’azione scenica, dell’interpretazione prospettica, è una forma di iconoclastia che condensa in un solo momento creazione e distruzione: quando il pubblico vede Paolo Pierobon nei panni di Berlusconi ha già inconsciamente ucciso Berlusconi e questo, gli autori della serie Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, lo sapevano bene. Qui rientra forse il vero “merito politico” di 1993, cioè aver offerto agli spettatori la possibilità di distruggere le loro icone.
I protagonisti
Leonardo Notte (Accorsi) è il messaggero polimorfo di quest’Olimpo decadente alla fine della Prima Repubblica. Da Buio, come si faceva chiamare ai tempi della militanza giovanile nei comunisti, ora si è pienamente incarnato nella convergenza nome- ruolo sociale: è invisibile ma vede tutto. Accorsi è straordinario nel saperlo opacizzare dietro a un ghigno indecifrabilmente perfetto e perverso.
La Miriam Leone, però, è la regina indiscussa della serie e basta un primo piano sullo sguardo glaciale per congelare lo schermo su di lei. Poco valorizzata anche in questa stagione sembra essere rimasta invece Tea Falco, il cui profilo languido e tagliente non riesce a dare movimento al suo personaggio, Bibi Mainaghi, ereditiera collusa con la mafia che decide alla fine di costituirsi.
La fotografia di Michele Paradisi si nutre esclusivamente di primi piani profondi e totalitari in cui tutto il resto della scena, che sia un tramonto autunnale romano o la bomba di via Fauro, è subordinato al volto e va in secondo piano. Le inquadrature leggermente dal basso su Pietro Bosco (Guido Caprino) ne evidenziano l’espressione appuntita e bieca, da centauro irrequieto, in linea con la sua lotta furiosa e solitaria per rimanere in politica.
Le notti non finiscono all’alba nella via
La colonna sonora, dagli 883 ai Duran Duran, come fa la Luna con i passeggeri di un’auto, veglia sulle immagini e le segue, rischiarandole con sfumata naturalezza. Alcune canzoni sono poste alla fine di ogni episodio come chiave di volta dell’intera architettura narrativa.
Disarm degli Smashing Pumpkins sigilla drammaticamente la prima puntata (“The killer in me is the killer in you”) allo stesso modo in cui Lonely Planet dei The The, con l’andatura larga ed eclettica tipica della new wave, fa da scia ad un finale di stagione volutamente aperto, pulsionale, che sembra quasi voler proseguire oltre i titoli di coda per confluire direttamente nella stagione successiva. In una tale armonia contestuale, poi, non c’è bisogno di menzionare l’anno di uscita dei brani scelti.
Gli episodi centrali, più degli altri, sono costellati di omaggi al grande cinema italiano e straniero, come è giusto che sia per una serie italiana che si carica tenacemente di un’energia propulsiva e innovatrice, lontana dalle modalità romanzesche della tipica mini-serie Rai. Il bacio tra il delicatissimo Luca Pastore (Domenico Diele) e la sua ragazza, che avviene nella cabina di proiezione di un cinema, ricorda la nostalgia piovosa e struggente di Nuovo Cinema Paradiso e la scena accecante del suo sogno lucido sotto gli effetti dell’LSD non ha nulla da invidiare al miglior Lynch.
Non può mancare l’attenzione al dettaglio quasi maniacale che contraddistingue il rapporto padre-figlio, in particolare tra Leonardo Notte e il suo padre biologico ritrovato, il noto giornalista Muratori (Giulio Brogi): durante una cena tra Leonardo e Muratori, sovrasta l’intera scenografia del salotto un affresco del “Sacrificio di Isacco”, che è un inconfutabile rinvio simbolico alla trama complicata della loro storia (anche se il vero padre di Leonardo è egli stesso).
“If you can’t change your world, change yourself”
Forse l’unica chiara incongruenza della serie sta nel sottotitolo: “Ogni rivoluzione ha un prezzo”. 1993 non parla di rivoluzione, non c’è smantellamento, cadono le pareti ma le fondamenta restano intatte. Ce lo conferma il finale disperato e grottesco, con Berlusconi che dirige il karaoke dell’inno del suo neopartito come un addestratore di scimmie, mentre i The The cantano in sottofondo “se non puoi cambiare il tuo mondo, cambia te stesso”. Il senso della storia, se un senso vuole esserci, è filtrato dalle parole di Sergio Cusani, imprenditore incarcerato a San Vittore e coinvolto nella tangente Enimont: “Nessuno parla mai delle vittime perché sono immobili; i colpevoli , invece, sono dinamici”. Non una storia di rivoluzione, ma di dinamismo.
Sofia Santosuosso