Man in the Dark, fra invasori e invasi – di Francesca Fichera.
Abbiamo una casa. Abbiamo, anche, qualcuno che ha intenzione di invaderla. Niente di sorprendente, a giudicare dalle apparenze, e invece Man in the Dark (Don’t Breathe) di Fede Alvarez ribalta prospettive e aspettative.
Perché stavolta il nemico è dentro, e non fra i ladruncoli di periferia intenzionati a scassinare l’abitazione di un reduce cieco (Stephen Lang) per conquistarne le ricchezze nascoste. Ma quel che è peggio è che va al di là di qualsiasi immaginazione.
In questo modo Alvarez, dopo il remake de La casa (2013), torna al cinema per rinfrescare e rinnovare l’home invasion. E ci riesce con la classe di una regia precisa, consapevole, perfetta. Fatta di soggettive e piani-sequenza, angolazioni asfittiche e dettagli angoscianti.
Una sfilza di occhi spalancati che racconta un triplo dramma intriso di sangue, povertà e miseria, il denominatore comune a invasori e invasi. Che in Man in the Dark viaggiano quasi sulla stessa lunghezza d’onda, anche se per ragioni completamente diverse.
Tre giovani ragazzi poveri
Alex (Dylan Minnette), Money (Daniel Zovatto) e Rocky (Jane Levy) vengono da famiglie distratte di un distretto dimenticato. Vogliono cambiare; sognano la California, una svolta, qualcosa per cui ritenersi realizzati. E si convincono che i soldi siano la soluzione – perché a volte, per quanto non sempre, lo sono davvero.
Così, quando vengono a sapere che il vecchio reduce solitario, in seguito alla morte della figlia, ha ricevuto un grosso risarcimento, si fiondano alla sua porta. Nonostante i cancelli, il cane da guardia dalle fauci schiumanti, la totale desolazione tutt’intorno. Nonostante sia “immorale” derubare un non vedente.
I nuovi miserabili
Qualcosa naturalmente va storto. Ma c’è dell’altro, che accomuna ancor di più la casa dell’uomo cieco al “retro del palazzo di Hyde nel mito dipinto da Robert Louis Stevenson o la soffitta di casa Rochester nella Jane Eyre di Charlotte Brontë”. Quel Male che “s’identifica con il lato inconfessabile del vivere privato, il suo sporco” (Quaderni d’Altri Tempi n. 64), e che finisce col distinguere brutalmente la figura del folle dai suoi giovani e disperati aggressori.
E il risultato è che in Man in the Dark non esiste casa che significhi accoglienza. Solo confusione, buio, terrore, assieme alla sensazione da incubo di trovarsi, prima o poi, nello stesso labirinto dei protagonisti. Una cosa che capirete solo guardando questo stupefacente thriller.