Uno sguardo sul mondo di Chemsex – di Elvira Del Guercio.
Londra, 2015: i giovani cineasti William Fairman e Max Gogarty aprono una destabilizzante finestra su una realtà i cui limiti non erano ancora stati perfino avvicinati, squarciando completamente il confine – ormai labile – tra vero e fittizio.
L’essere umano, come diceva Sartre, deve “essere” qualcuno per percepire la propria individualità o, più semplicemente, ha bisogno di credere di avere un posto nel mondo, far parte di una specifica comunità, per non confondersi nel nulla: è ciò che accade, quasi quotidianamente, nella comunità gay londinese.
Le vulnerabilità e le insicurezze di un passato problematico vengono compresse da un uso smisurato di ogni tipo di sostanze stupefacenti al fine di poter accrescere la libidine sessuale e dimenticare ogni tipo di inibizione, in un contesto spesso di gruppo e prolungato.
Contro i pregiudizi
In Chemsex Fairman e Gogarty narrano sedici storie diverse, intervistando ognuno dei ragazzi e uomini caduti in questo tipo di dipendenza, comportandosi da veri e propri analisti: a ognuno di loro si pongono domande circa passato e problematicità del presente, in modo tale da sviscerare dal sottosuolo delle loro spezzate interiorità l’iter che li ha portati, paradossalmente, a dimenticarsi di vivere.
“Una volta era passata quasi una settimana e non l’avevo nemmeno accusato.”
Così esordisce, non riuscendo a reprimere le lacrime, uno di questi uomini, con un passato da economista e un presente da mercante del proprio corpo.
La macchina da presa si muove vorticosamente tra psichedeliche sequenze di feste “droga, sesso e metadone” e instabili soggettive alla Enter the Void, soffermandosi, tuttavia, su monologhi al limite del drammatico dove emerge tutta l’umanità e la sensibilità per la cui passata assenza questi uomini hanno sofferto terribilmente.
Come afferma David Stewart, il responsabile di una sorta di “casa di cura” londinese per questi casi ignorati e bypassati in quanto visti o come una manifestazione di satana nel mondo o come un’esecrabile vortice di dipendenze immorali, chi decide di entrare nella scena sono molto spesso o uomini sposati con figli o giovani dalla psiche tribolata, provenienti da contesti sociali isolanti.
Crescendo, solo all’apparenza, in compagnia o trascorrendo un’adolescenza alla base di una quanto mai fittizia piramide sociale, ognuno di loro ha interiorizzato il proprio dramma esistenziale a suo modo. È quasi normale, quindi, che queste persone vogliano trovare una comunità di cui far finalmente parte, configurandosi ciò come una sorta di riscatto sociale contro il pregiudizio della mentalità medio-borghese o, più pragmaticamente, contro quegli strascichi di omofobia ancora dilaganti.