La miseria e la devastazione post tifone in Figli dell’uragano.
Sull’onda del successo ottenuto dall’ultimo The Woman Who Left, Leone d’Oro a Venezia, Zomia ha portato in Italia con una distribuzione limitata la prima parte di un progetto collaterale di Lav Diaz: il documentario Figli dell’uragano.
Girato nelle zone colpite dal tifone Yolanda del 2013 a meno di un anno di distanza dalla tragedia, il film del regista filippino testimonia con uno sguardo neutro e impassibile la vita quotidiana dei bambini che vivono nelle strade dei villaggi alluvionati.
Il tifone, come ci viene spiegato durante il film, ha ridotto metà della popolazione a vivere in mezzo alla strada, portando via villaggi interi e uccidendo migliaia di persone. Molti bambini sono rimasti orfani delle proprie famiglie e tanti sono rimasti senza una casa.
Un lento avvicinamento
Si capisce che Lav Diaz ha trascorso parecchio tempo in quelle zone poiché la sua è un’immersione totale nell’ambiente circostante e tra le persone che ci vivono. Come sempre il suo metodo è quello di piazzare la macchina da presa e di lasciare andare l’inquadratura per diversi minuti, nella maggior parte dei casi senza che succeda assolutamente niente.
Si può dire che il soggetto principale sia quello dell’assenza di tempo, dell’assenza di vita. Bambini che rovistano tra le macerie, tra la spazzatura, che riempiono le proprie giornate alla stregua di animali.
E Lav Diaz struttura Figli dell’uragano come un’esperienza reale di avvicinamento a quel mondo, dedicando la prima ora alla sola osservazione, senza intervenire mai. Poi, nella seconda parte, iniziamo ad avvicinarci di più ad alcuni di questi bambini, sentendo finalmente anche qualcosa di ciò che hanno da dire.
Ed è così che veniamo a sapere l’orrore dalla bocca di chi lo ha vissuto. Ed un’immagine soltanto raccontata, quella della nave che, trasportata dall’onda, porta via con sé tutte le case del villaggio, è talmente spiazzante da non lasciare spazio ad alcun sentimento.
È infatti la più totale allegria e spensieratezza a dominare le persone rimaste per quelle strade. E quelle stesse navi, che dopo aver portato via con loro innumerevoli vite umane giacciono arenate a pochi metri dalla riva, sono adesso diventate un trampolino di lancio per tuffarsi nell’acqua e giocare, perché altro da fare non è rimasto.
Cinema del reale
Il lavoro di Lav Diaz è cinema del reale allo stato puro, completamente depurato da qualsiasi manipolazione. Una testimonianza consegnata al mondo, cui seguiranno ulteriori capitoli, che è più un atto di militanza documentaristica che un’opera cinematografica vera e propria.
Un progetto che non ha niente della cura estetica del suo cinema, dell’ossessione per il piano sequenza o per la complessità della messa in scena. È documentario vero e puro, sicuramente di non facile fruizione, ma che saprà sicuramente ripagare chi vorrà sottoporsi alla prova.