Blair Witch: l’orrore ai tempi del GPS – di Francesca Fichera.
Nel 2000 c’era già stato Il libro delle streghe (The Blair Witch 2): una rielaborazione, più che un seguito, dei fatti raccontati nel celebre The Blair Witch Project di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick. Ma il vero sequel è questo, arrivato a noi dopo sei anni di trattative e ripensamenti, e porta la firma di Adam Wingard.
Un nome una garanzia: l’autore di You’re Next e The Guest torna in sala riesumando un caso cinematografico da molti considerato (a torto) il capostipite del genere found-footage. E lo fa con la giusta dose di personalità e originalità, collocandosi formalmente a metà strada fra continuazione e ripetizione.
Un ricordo, un omaggio e qualcosa in più
Dice bene chi parla di déja-vu, perché è proprio la sensazione dominante suggerita dal film di Wingard. Ed è bene ribadirlo: sin dai primi minuti di girato, che ne riproducono e mostrano alcune immagini, The Blair Witch Project diventa presenza latente e ossessiva insieme, proprio come la strega Elly Kedward fra le colline del Maryland.
Ma ciò non basta comunque a fare di Blair Witch, nonostante la comunanza di ambientazioni e situazioni, l’esatto calco del suo illustre predecessore. Grazie a Wingard, ma grazie anche all’azione del tempo, che ha reso impossibile (oltre che anacronistico) riproporre il gioco illusorio alla base del marketing del primo film.
Qui infatti gli attori (al netto di considerazioni più profonde sulle loro dubbie capacità recitative) sono dichiaratamente tali, e le didascalie d’apertura più rapide a scomparire. Perché sì, la memoria collettiva dell’opera di Sánchez e Myrick conserva un bel peso e, soprattutto, il potere di essersi giocata la carta “documento vero” per sempre.
Storia vecchia, regia nuova
Allora Wingard che fa? Si adegua. Si adatta ai tempi, com’è giusto che sia. E sceglie di saltare a pie’ pari il punto di vista unilaterale del found-footage sfruttando l’attualità e i numeri. Così il suo Blair Witch ha più partecipanti e più telecamere, in linea con i device di ultima generazione, e lo sguardo in soggettiva si moltiplica, guizzando da un punto di vista interno all’altro.
Lo sguardo del regista che, pur coincidendo con quello dei suoi personaggi, valica i confini imposti dalla cornice tecnica per prendersi la libertà di dirigere un found-footage che più finto non si può, eppure perfettamente funzionante.
Perché sì, perché no
Lo scrittore Simon Barrett considera il pubblico, sa chi ha di fronte: per la maggior parte, persone che si divertono a crocifiggere i cliché dell’horror nei meme su Facebook. Perciò aggiorna la leggenda ai tempi del GPS, dimostrando che una strega, se vuole, può manipolare anche satelliti* e droni; e quindi i protagonisti di Blair Witch hanno tanto fiato quanta speranza in meno.
Il continuo ansimare di sottofondo non mancava allora e non manca oggi, come non mancano eclatanti svarioni (persone zoppe che corrono) e ridicolaggini (tende da campeggio volanti) capaci di far sfiorare il baratro ad un lavoro nel complesso dignitoso e, a suo modo, perfino coraggioso.
Fortunatamente a controbilanciare il tutto in maniera positiva e definitiva resta la mano di “un autore da tenere in alta considerazione” (Cultura&Culture), quell’Adam Wingard in grado di donare ai suoi nostalgici spettatori venti minuti di puro magnetismo cinematografico uniti a un finale claustrofobico, “che non vi mollerà un secondo”. Parola di Eduardo Sánchez e di CineFatti.
* occhio alle fattucchiere sulla Caserta-Roma