Paradise, il dramma onirico sulla Shoah di Andrei Konchalovsky – di Victor Musetti.
Dopo il Leone d’Argento vinto due anni fa con The Postman’s White Night, Andrei Konchalovsky torna in concorso a Venezia con Paradise, un’ennesima e poco originale rappresentazione della Shoah, girata in 4:3 e rigorosamente in bianco e nero.
Tre personaggi, Jules, Olga e Helmut, si raccontano di fronte alla macchina da presa come in un confessionale. Uno un poliziotto francese collaborazionista, lei principessa russa ex collaboratrice di Vogue, l’altro un nazista sognatore membro delle SS.
Le loro storie si incrociano tra i campi di concentramento mentre lo spazio astratto del confessionale permette a Konchalovsky di aggiungere un secondo livello di lettura degli avvenimenti. Quello dei sogni dei suoi personaggi, delle loro speranze e dei loro rammarici.
In questo senso c’è da dire che è forse uno dei pochi aspetti davvero originali l’approfondimento psicologico di Helmut, il membro delle SS. Il suo è un sogno idilliaco popolato da soli ariani, che vediamo girato come un film degli anni ’30 in una delle sequenze più affascinanti del film.
Un esercizio di stile
C’è infatti questa ostentazione estetica quasi esagerata, tanto da far quasi pensare che il soggetto della Shoah sia soltanto una scusa per mettere in mostra le proprie doti registiche, qui concentrate sulla grandiosità delle inquadrature, rigorosamente fisse e in piano sequenza, fotografate in un bianco e nero meraviglioso.
Konchalovsky ha il grande pregio di non prendersi mai completamente sul serio. Il suo è un esercizio di tecnica, di messa in scena e, in poche parole, di stile. Si diverte a giocare con il linguaggio, passando dal comico al drammatico e dal reale al meta-cinematografico.
Paradise è un lavoro quasi inattaccabile, poiché mostra le capacità di un maestro assoluto unite alla mostruosa tecnica di tutti i suoi collaboratori. Ciò che manca in questo caso è però un soggetto che possa fare davvero presa sullo spettatore. Perché il tema della Shoah è arrivato a un punto di non ritorno, specialmente dopo un film come Il Figlio di Saul.