Il cileno Larraín sfiora la perfezione con la storia di Jackie Kennedy
Molta aspettativa e molta curiosità c’erano verso questo Jackie di Pablo Larraín, prima produzione statunitense e in lingua inglese per il regista cileno di No e Il Club, questa volta alle prese con la vita dell’ex First Lady Jacqueline Kennedy, moglie del presidente assassinato nel ’63, qui interpretata da un’incredibile Natalie Portman.
Scritto da Noah Oppenheim, il film racconta di come la Kennedy abbia affrontato i momenti immediatamente successivi alla morte del marito e di come abbia saputo gestire la sua vita dopo il trauma.
L’ossessione per la morte
Larraín ha come punto di partenza una sceneggiatura solidissima che già di per sé contiene tantissimi elementi del suo cinema. La morte, la sofferenza il lutto, il pessimismo estremo. Ma riesce a dargli un’impronta personale così forte da farla sembrare sua. Jackie è infatti sostanzialmente un film funerario, in cui per la maggior parte del tempo si parla di tombe, di autopsie e di cortei funebri.
Le musiche, bellissime, di Mica Levi (Under the Skin), che Pablo Larraín utilizza con enfasi esagerata per tutto il film, contribuiscono a creare un’atmosfera solenne e fatale sin dalla prima inquadratura, quel primo piano di Natalie Portman che da solo racconta ed emoziona senza spiegare nulla.
Ed è lei, ovviamente, il vero peso specifico di Jackie, complice un lavoro mostruoso di immedesimazione che la porta a modificare pesantemente anche il suo modo di parlare per assomigliare il più possibile a Lady Kennedy.
Archivio e finzione
Larraín, riprende in parte alcuni elementi dal suo film più famoso No nel momento in cui, dovendosi confrontare con la storia, mescola materiale d’archivio con le scene girate da zero simulando le cineprese dell’epoca, come ad esempio nella celebre visita guidata della Kennedy alla Casa Bianca.
Jackie è sostanzialmente un film del dolore, così concentrato sul suo personaggio da non abbandonarlo mai, prediligendo sempre i primi piani strettissimi ai campi larghi.
Manca forse la libertà di Larraín di aggiungere qualcosa in più di suo, che magari si discosti dalla versione ufficiale dei fatti. Ed è forse questo il limite maggiore del film, quello di avere, in un certo senso, le mani legate.
Anche il personaggio di Jacqueline Kennedy, per quanto reso in modo così intimo, realistico e sofferente, è affrontato con un pudore inedito per il cinema di Larraín. È infatti strano che concentrandosi così fortemente su di una persona la si veda sempre e solo vestita, sempre composta, sempre sotto controllo.
Insomma Jackie è un film straziante che rasenta la perfezione. Lo si può considerare come un lavoro di passaggio per il regista cileno, verso budget ancora più grandi e ambizioni sempre maggiori. Ma è l’ennesimo tassello di una carriera che non ha mai fatto un buco nell’acqua e, si spera, destinata a salire ancora.
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