Suprematisti bianchi vs band metal nell’atroce Green Room.
Avere un amico o un’amica musicista porta storie di tragedie economiche, passione sfrenata e più di tutto bizzarri racconti di performance in lande sperdute e invase dalla nebbia o da ascoltatori alla ricerca di un brano di Luciano Ligabue contro il tuo repertorio di cover indie-pop-metal-rock.
Green Room del regista di Blue Ruin, Jeremy Saulnier, ricorda queste simpatiche fiabe musicali con la differenza d’avere dei risvolti terrificanti, violenti, in certi momenti così grafici da esser difficili da mandare giù.
Qualcosa non va
Gli Aren’t Rights hanno deviato di 80 miglia dal loro percorso previsto per uno spettacolo di primo livello, ma il loro contatto li delude e dopo un ripiego quasi offensivo vengono direzionati verso una platea fuori mano, pagante ma poco attraente, un club di suprematisti bianchi nazisti a caccia di musica forte.
Tutto procede, nel bene e nel male, finché prima di andarsene il chitarrista (Anton Yelchin) non vede qualcosa a cui non doveva assistere: l’omicidio di una ragazza dei suprematisti.
La reazione è al di là della legalità e con l’arrivo del proprietario – terrificante Patrick Stewart – gli eventi prendono una piega raccapricciante: Green Room si trasforma in un home invasion e la band tenta il tutto per tutto pur di riuscire a scappare dalle grinfie di filonazisti armati di machete e cani addestrati a mangiar uomini.
A suon di machete
Personaggi perfetti con evoluzioni puramente cinematografiche – classici ribaltamenti di personalità – e atmosfere da incubo rendono Green Room un must. Ciò che è stato descritto in modo distratto dalla regia diventa in un batter d’occhio per lo spettatore carta conosciuta, un gioco da tavolo su cui le pedine sono schierate in attesa di scontrarsi. Quando arriverà il primo colpo di machete la tensione si trasformerà in terrore puro. Green Room accrescerà il vostro amore col salire dell’angoscia.
Fausto Vernazzani
Voto: 4/5