D.A.D.: una mezza promessa.
Il terriccio e la ghiaia si insinuano dappertutto, i giacigli improvvisati con sporchi sacchi di cemento rendono impossibile dormire e ancora più foschi i pensieri. I comfort nella cava a cielo aperto sono ridotti all’osso e di umano negli sguardi svuotati dei suoi abitanti, un eterogeneo gruppo di uomini e donne, resta ben poco.
Non siamo in un reality televisivo, tra i sopravvissuti al disastro aereo di Lost o tra i fuggiaschi di The Maze Runner, ma nell’ambizioso (o pretenzioso a seconda di chi guarda) thriller italiano di Marco Maccaferri, presentato in anteprima all’ultima edizione del Busto Arsizio Film Festival.
All’attivo la regia di numerosi spot per noti gruppi industriali e di famose soap italiane, per il suo esordio sul grande schermo, Maccaferri utilizza un suo (e di Diego Runko) soggetto originale per gettare letteralmente in un buco più lungo che largo (fossa comune, prigione, trincea?) una ventina tra uomini, donne e l’immancabile volto dell’innocenza (una bambina che vediamo spingere nel buco dalla madre in fuga).
Da un tubo scrostato un rivolo dacqua assicura la sopravvivenza, anche se per poco, perché per perdere la vita basta mettersi in posizione eretta. Non appena i reclusi provano ad alzarsi e a mettere fuori il naso dalle basse pareti che delimitano il buco, vengono falciati da colpi di mitragliatrice.
Chi c’è dall’altra parte del buco non si sa. È un gioco al massacro, un Hunger Games nostrano, un Cube senza cubo, comunque un primitivo ritorno al passato. Perché anche carponi l’uomo sopravvive. Si adatta, inizia a percepire la normalità di una condizione che ai più risulterebbe assurda.
Quello che conta non è il fuori, ma il qui e ora, la vita o la parvenza di vita all’interno della prigione di terra e massi: strisciare, nutrirsi, allearsi, amarsi, litigare furiosamente.
Un discreto inizio
Nella parte iniziale di D.A.D., attraverso scarni dialoghi, il regista e sceneggiatore è abile nel farci intuire il vissuto pre-reclusione dei protagonisti e nel guidarci con un crescendo di tensione in un presente cupo ed inquietante.
Una parte che funziona a dovere anche grazie alla discreta prova degli interpreti, volti poco noti (eccezion fatta per i televisivi Giorgio Borghetti e Luca Bastianello) ma funzionali a un racconto che riesce a miscelare fantascienza, dramma psicologico e teatro-danza, con gli attori che si muovono carponi in uno spazio ristretto con movimenti ben coreografati, con gli occhi impazienti, gli arti nervosi nel desiderio frustrato di alzarsi.
La gestione dello spazio e il climax di tensione è probabilmente il pregio più palese di un film che, purtroppo, si sfilaccia sul finale quando a Maccaferri sembra mancare il coraggio di spingere fino in fondo il piede sull’acceleratore. Ma per una volta possiamo accontentarci dell’intenzione in attesa di una seconda prova che mantenga le buone promesse di questa opera prima.
Francesca Paciulli