Ci sono riusciti ancora. Dopo i mediocrissimi sequel di Cars e Monsters & Co e il decisamente poco pixariano Ribelle – The Brave, torna con Inside Out la Pixar più grandiosa e ambiziosa di sempre, quella che ci ha fatto ridere e piangere con capolavori come Up, Wall-E e Toy Story 3. Difficile a credersi ma questa volta il progetto è più difficile e rischioso che mai, non a caso a prenderne le redini è stato nientemeno che Pete Docter, regista proprio di Up e del primo Monsters & Co.
In Inside Out più che di fronte ad una storia vera e propria ci troviamo di fronte ad un’idea astratta, ad una metafora profondissima resa in immagini con il linguaggio del cinema d’animazione per bambini. I protagonisti infatti non sono né persone né animali. Sono le emozioni personificate di una bambina di 12 anni e abitano nella sua testa, rispettivamente si tratta di: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia, Disgusto. Il loro lavoro è dei più difficili, poiché devono tenere insieme lo spettro emotivo di una bambina in piena fase di crescita. Riley, questo il suo nome, sta infatti attraversando una fase particolarmente difficile della sua vita, costretta a trasferirsi e ad ambientarsi in una città completamente diversa dalla sua. Le sue emozioni, come lei, devono quindi imparare a convivere tra loro, a conoscersi e a riconoscere l’una il valore dell’altra.
Quasi come volesse renderlo un marchio di fabbrica, Pete Docter riprende la formula di Up e usa i primi 10 minuti di film per farci innamorare del suo universo e spiegarci in modo intuitivo le regole che lo governano. Con questa ennesima sequenza da antologia (quella di Up resta chiaramente inarrivabile per carica emotiva) ci si rende subito conto del mastodontico lavoro di rimaneggiamento costante che un soggetto dalle meccaniche così complesse deve aver subito nel corso degli anni. Le possibilità infatti date da un’idea come questa erano infinite e si poteva facilmente deviare verso pretese esistenzialiste sul mondo e sulle emozioni degli uomini.
Paradossalmente, dove si nota invece l’incredibile lavoro del team di sceneggiatori, insieme all’ormai famoso “Brain Trust”, è proprio nella semplicità della struttura, frutto appunto di un immenso e complicatissimo lavoro di sintesi e di dolorosissime scelte. Lo si vede nei piccoli dettagli, da una bambina a cui esce il latte dal naso per aver riso troppo forte al jingle della pubblicità di un dentifricio che non vuole andarsene dalla testa. Piccole scelte così ben pensate che, combinate insieme, fanno spesso rasentare a Inside Out la perfezione assoluta. E anche se all’inizio si può percepire un po’ di confusione nel seguire la storia di Riley a causa dell’invadenza delle voci nella sua testa, è incredibile come il lavoro di sceneggiatura sia riuscito a mantenerla centrale nella storia pur facendola raccontare dal punto di vista di altri personaggi.
Inside Out insomma è tra i film Pixar più compatti di sempre se non anche il più maturo in assoluto, bilanciato com’è tra una tematica estremamente stratificata, che soltanto gli adulti potranno capire fino in fondo, e un linguaggio perfettamente accessibile ad un pubblico di bambini, che di certo non si troveranno esclusi o confusi ma, al contrario, troveranno milioni di motivi per divertirsi ed appassionarsi ad un’avventura piena di situazioni geniali e capace di insegnare loro molto su come affrontare la giungla dell’esistenza che li aspetta. Un film che non ha bisogno di mettere in mostra la propria intelligenza ma che, al contrario, vuole e si sente in dovere di fare del bene.
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