Wild

Wild (Jean-Marc Vallée, 2014)

Wild: poco selvaggio, molto noioso.

Cherly Strayed è una donna vera. Vera nel senso che esiste nella realtà, al di là dello schermo. Ha fatto un viaggio e lo ha riportato in un’autobiografia, adattata da Nick Hornby proprio perché lo schermo riuscisse a racchiuderla, sotto l’egida compositiva di Jean-Marc Vallée.

Wild è il titolo del pellegrinaggio di Cheryl – che nella realtà del cinema ha il volto bellino e la chioma bionda di Reese Witherspoon – attraverso le impervie terre di confine tra la California e il Messico, con una meta che appare meno confusa del punto di partenza. Non è subito chiaro infatti da cosa fugge Cheryl: sarà compito dei ripetuti flashback raccontarcelo, come delle canzoni – una bella playlist da cui spicca El condor pasa nella versione di Simon & Garfunkel – commentarlo.

Quel che è certo è che Vallée riesce a far percepire due cose: la solitudine e la paura. In questo Into the Wild al femminile il luogo figurato del viaggio compie la sua auspicata funzione di catarsi, porta con sé la verità desiderata e non quella inattesa. In una parola: è positivo, perché racconta una storia, per quanto dolorosa, andata a buon fine.

Ma Wild è una storia come tutte, e la regia singhiozzante e strascicata di Vallée non aggiunge niente alla sua messa in scena. L’eccezionale coraggio di Cheryl ad andare tutta sola per deserti e fra boschi viene prontamente sminuito dal contorno, presentato in salsa volgarmente videoclippara, di un passato da tarda adolescente che abusa di se stessa – con drogasesso e rock’n’roll – perché ha perso i propri punti fermi e copre il vuoto con il vuoto.

La Witherspoon, apprezzabile ma non indimenticabile nonostante il nudo, regge lo sforzo di un ruolo da protagonista assoluta quel tanto che le è richiesto; per il resto, interagisce con i paesaggi (di quelli così mozzafiato da non esserlo, grazie anche alla mano didascalica di Yves Bélanger) e con una saltellante Laura Dern che, come la Moore, finisce agli Oscar per uno dei suoi personaggi più insignificanti – per quanto bene interpretati.

E la conclusione non contraddice il resto: si confà anzi perfettamente allo stile piatto nato dalla scelta di narrare una storia particolare proprio stando a sottolinearne la particolarità. Per di più, con una venatura superficialmente spiritualista che finisce col togliere profondità e universalità a una parabola che avrebbe potuto averne a prescindere. Perché non sempre si può, o si deve, andare in cima ai monti per ritrovare il senso di tutto. Ammesso che un senso esista.

Francesca Fichera

Voto: 2/5

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