BFI58: My Old Lady (Israel Horowitz, 2014)

di Fausto Vernazzani.

A esordire non sono solo giovani registi, ma anche anziani drammaturghi di 75 anni come Israel Horowitz, al BFI London Film Festival per presentare una seconda volta dopo Toronto la sua prima regia cinematografica, My Old Lady, tratta da una delle sue tante opere teatrali in una lunga carriera che lo ha visto anche in stretto contatto con personalità quali Samuel Beckett.

Proprio da Beckett si inizia, con una sua citazione a metà: “If you do not love me I shall not be loved.” Il significato rispetto alla trama tarderà a rivelarsi, e quando il momento arriverà la noia potrebbe essere già salita a gradi di malattia troppo elevati per poter guarire. Siamo a Parigi con Kevin Kline, appena arrivato da New York per riscattare l’eredità lasciatagli dal padre: una casa con inclusa l’anziana Maggie Smith con un viager che la lega alla proprietà e a esser pagata dal possessore fino alla morte.

Lei è la My Old Lady del titolo, una signora di 92 anni ancora in salute, con un Kline povero e derelitto in conflitto con la figlia di lei, Kristin Scott Thomas, decisa a comprare da lui la casa a un prezzo irrisorio. Horowitz ha però in serbo per i due tante sorprese, molte scoperte sul proprio passato e sul rapporto tra l’anziana signora e il padre di lui, nonché la sua stessa famiglia. Un mare di parole non dette.

My Old Lady

Prevedibile a tratti, divertente di tanto in tanto, ma la pigrizia in regia è estenuante: senza un pizzico di inventiva Horowitz si affida in Totò agli attori, bravi, per carità, e al testo, senza sforzarsi a creare una qualche interessante sfumatura registica, My Old Lady è teatro filmato male, adattato al minimo indispensabile per rientrare nei canoni della settima arte. Se in qualche istante si ride è per una battuta brillante e nient’altro, la regia non aumenta né diminuisce il potere dei dialoghi: è inerte.

Poco alla volta si tende a resistere sempre meno alla noia nata dalla piatta regia, e con Maggie Smith a difendere ancora le vie degli inglesi dopo quattro stagioni e oltre di Downton Abbey non ci si entusiasma: è un piacere sentirla parlare di englishness, ma neanche causa qualcosa in più di un mezzo sorriso. Lo stesso vale per l’ormai franco-inglese Thomas o l’americano insicuro e pieno di dubbi Kline. Abbiamo già visto tutto questo, lo abbiamo già sentito e di rivederlo ancora una volta proprio non ce n’era bisogno.

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