The Raid: Berandal - CineFatti

The Raid 2: Berandal (Gareth Evans, 2014)

Gareth Evans decuplica bellezza e azione nel suo Berandal

Il cinema può arrivare da qualsiasi angolo del globo e da chiunque. Nessuno avrebbe mai immaginato un giovane documentarista gallese come leader del futuro cinema di ’arti marziali orientale.

È quanto successo grazie all’’incontro tra Gareth Evans e Iko Uwais, riunitisi una terza volta per il sequel del loro successo The Raid: Redemption, dal titolo The Raid 2: Berandal (trad. “criminale”), già applaudito da platee internazionali di varia estrazione.

Incontro con Rama

Il giovane poliziotto Rama (Uwais) di The Raid è di ritorno dalla missione appena compiuta e su suggerimento del fratello si reca dall’unico detective pulito di cui la mala è a conoscenza.

La vita di Rama e della sua famiglia non è più al sicuro, la corrotta polizia indonesiana guidata da Reza/Roy Marten gli darebbe subito la caccia dopo quanto ha causato nel primo The Raid.

 

È il momento di contrattaccare: costretto ad abbandonare i suoi viene inviato sotto copertura in carcere per stringere amicizia con Uco, l’’ambizioso e violento figlio del boss Bangun/Tio Pakusadewo, alleato con l’’organizzazione dei giapponesi di Goto.

In silenzio il mezzo arabo Bejo/Alex Abbad si fa strada e intanto Rama passa gli anni in carcere a battersi per avvicinarsi a Uco, fino a riuscire nell’’impresa e a intraprendere una missione impossibile ai piani alti dell’’organizzazione al fianco del boss.

Scopo, la dimostrazione della corruzione dilagante nelle forze dell’’ordine e l’’unico modo è procurarsi solide prove difficilissime da ottenere, finché non scoppia l’inevitabile guerra tra bande.

Trame intricate

Una storia assai più complessa rispetto al diretto predecessore, dove la semplicità era all’ordine del giorno e il solo obiettivo era sperimentare con l’’azione più spettacolare vista dagli spettatori negli ultimi anni.

The Raid 2: Berandal corre verso la stessa meta, Evans e Uwais sono ambiziosi come Uco (’ottimo Arifin Putra) e corrono a velocità raddoppiata per coreografare combattimenti memorabili, ancora una volta con l’aiuto di Yayan Ruhian, presente in un ruolo diverso.

Incredibili anche in Berandal gli scontri finali, calcolati al millimetro per soddisfare la ricerca estetica della migliore inquadratura e al contempo la credibilità degli stunt praticati dai protagonisti. Cecip Arif Rahman non lo dimenticheremo facilmente.

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Crescita esponenziale

Sarà chiaro a questo punto che 90 minuti potevano contenere la linearità verticale di The Raid, ma non l’ambizione di Berandal ed è qui forse l’unico svantaggio del terzo film di Evans: per quanto sensazionale, oltre due ore sono difficili da mandar giù.

È tuttavia un difetto perdonabile, qualsiasi azione coreografata da Ruhian, Uwais e dall’ospite straniero Larnell Stovall è degna di essere ascritta agli annali del cinema di arti marziali, in particolare la lunga lotta nel fango all’interno della prigione.

Proprio in quella scena di lotta collettiva Evans evidenzia sin da subito come la macchina da presa sarebbe stata fedele al movimento dei suoi protagonisti, anche il più complesso. In caduta libera laterale o all’inseguimento, piani sequenza dall’aspetto surreale, risultato straordinario di Matt Flannery e Dimas Imam Subhono.

Proprio il comparto tecnico porta The Raid 2: Berandal su vette superiori rispetto ai “confratelli” del genere d’arti marziali, dove la regia spesso si limita a fare da accompagnamento, spingendosi poche volte più in là del dovuto (come fece Prachya Pinkaew nei suoi anni migliori con Tony Jaa davanti la macchina da presa).

Il gusto britannico di Evans traspare senza paura, la calma del cinema inglese è presente e rotta costantemente dalla brutalità della vita quotidiana in Indonesia, contrasto che non cessa mai di sorprendere e conferma come l’’incontro tra culture diverse possa portare all’eccellenza anche nei generi più sottovalutati.

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Fausto Vernazzani

Voto: 4/5

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