The Reptile – La morte arriva strisciando (John Gilling, 1966)

Sotto la pelle di The Reptile

Un uomo si trova all’interno del suo cottage, immerso nella tetra vegetazione della campagna britannica, in una notte oscura e piena d’ombre. Un biglietto dal misterioso contenuto lo spinge a fare visita al suo vicino di casa: un invito dal quale il giovane Charles Spalding non farà più ritorno. Non vivo. Ha inizio così The Reptile di John Gilling, produzione Hammer targata 1966 e distribuita in Italia come La morte arriva strisciando. Nel pieno rispetto dei cliché, di genere e non.

Il vicino del povero Spalding, l’arcigno Dottor Franklin, ha il volto – anche qui tipico in più d’un senso – del caratterista Noel Willman. Viene a dargli man forte, dalla parte dei “buoni”, l’attore Ray Barrett, interprete del fratello della (prima) vittima giunto in paese per ereditare l’abitazione dello sventurato e soggiornarvi assieme alla moglie, la biondissima Valerie (Jennifer Daniel).

Gently Peter

Tutta la comunità accoglie in malo modo gli sposi stranieri; tutta fatta eccezione per Tom Bailey (altro caratterista habitué delle produzioni Hammer, Michael Ripper) il barista del luogo, interessato in prima persona a vederci chiaro sulla fitta serie di strani avvenimenti e morti improvvise che affligge la cittadina. Black Death la chiamano, dal colore brunito della pelle dei cadaveri, ritrovati con il viso come contratto da una violentissima crisi epilettica.

Ma allora perché l’anziano Peter (John Laurie), per quanto un po’ tocco, è certo che la morte si spanderà ancora al suono di un’inquietante melodia, proveniente da un punto indefinito della brughiera? Perché, dall’arrivo dei coniugi Spalding, il Dottor Franklin non fa altro che ronzare attorno al giardino del loro piccolo cottage?

Pelle tesa

Grazie a quelle atmosfere gotiche e posticce per cui la Hammer Film è sempre in grado di farsi riconoscere, The Reptile rappresenta una pellicola peculiare, che non sorprenderebbe se non fosse per il suo quid in più che la rende godibile, che getta curiosità sulla storia a dispetto delle numerose ingenuità dello script, dell’aspetto ridicolo e irrealistico del mostro principale e della risoluzione facilona sul fondo: il filo del mistero è teso al massimo, ogni volta e fino a quando dev’essere mollato.

Ciò che non viene mostrato è il motivo per il quale lo spettatore vuole guardare ancora: scoprire l’origine della strana musica, capire perché il Dottor Franklin si aggira nei dintorni di casa Spalding in compagnia del suo fin troppo fedele servitore indiano, riconoscere l’identità del responsabile di tutte quelle uccisioni e, una volta risposto a ciascuna di queste domande, lasciarsi affascinare da quel che il film di Gilling ha ancora da offrire, sebbene entro i limiti del suo contesto di produzione.

L’altro che fa paura

Innanzitutto un tentativo significativo e simbolico di fondere il background del mostro tradizionale con la materia fisica, emergente sul piano dell’immaginario, dell’animale a sangue freddo.

Il che corrisponde a un’ennesima e importante declinazione del tema dell’esotismo, della percezione sociale dello straniero, dell’altro, e della sua risonanza sul piano culturale, negli stessi anni in cui le pellicole di Roger Corman e Mario Bava riproponevano le figure classiche dell’horror.

Francesca Fichera

Voto: 3/5

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