RoboCop (José Padilha, 2014)

di Fausto Vernazzani.

La legalità è a fuoco nel cinema del brasiliano José Padilha, Orso d’oro alla Berlinale con il recente cult Tropa de Elite, sin dall’inizio della sua carriera con Bus 174. Con la serie sui celebri squadroni della morte che operano tra le favelas dimenticando ogni tanto qualche diritto umano – lo testimonia la “pulizia” nei quartieri poveri di Rio de Janeiro prima dei Mondiali -, Padilha si è espresso senza paura sui crimini compiuti da chi la Legge dovrebbe farla rispettare. L’atterraggio a Hollywood per dirigere il remake di RoboCop segue lo schema alla perfezione.

La ricerca militare sugli armamenti dell’esercito degli Stati Uniti è l’obiettivo numero uno della Omnicorp guidata da Michael Keaton. I profitti giunti dalle vendite di androidi e macchine da guerra sfruttati nei punti caldi del mondo come sentinelle sono esorbitanti, eppure insufficienti: è necessario poter operare anche sul territorio, ma il diffidente popolo statunitense non ha alcuna voglia di veder le proprie strade pattugliate da vigilanti meccanici. Hanno bisogno dell’illusione di un volto umano, un loro simile con cui relazionarsi.

La soluzione è nel reparto medico della Omnicorp, guidato da Gary Oldman, uno scienziato buono che ricostruisce parti del corpo mancanti a pazienti che hanno subito un incidente o sono nati con difetti un tempo irreparabili. A lui Keaton chiede un servizio preciso: costruire un ibrido uomo-macchina controllabile dall’esterno. Per farlo hanno bisogno di iniziare con un ex-poliziotto, un eroe come Alex Murphy/Joel Kinnaman, di recente vittima di un attentato esplosivo che lo ha (quasi) letteralmente ridotto a brandelli. Oldman lo ricostruirà con i soldi di Keaton e la pubblicità di Samuel L. Jackson, conduttore televisivo e commentatore politico di estrema destra.

La differenza col RoboCop di Paul Verhoeven degli anni Ottanta è tutta nelle origini: Murphy era al centro di tutto, una vittima del sistema per cui lo spettatore simpatizzava, adesso con Padilha è il sistema il vero protagonista, l’empatia per l’agente resta distesa e non conquista mai una ruolo centrale. La famiglia di lui (Abbie Cornish la moglie con figlio) è un dettaglio extra per ricordarci l’umanità della creatura ormai al 90% meccanica di proprietà della Omnicorp, una figura attorno a cui ruota un discorso ben più interessante sulla propaganda con Jackson, l’integrità morale con Oldman e il governo tenuto sotto controllo dal potere economico delle corporazioni con Keaton.

Sono loro tre le leve che attivano il film, si passano la palla da una scena all’altra mentre RoboCop fornisce l’azione necessaria per rendere il film appetibile. Si batte contro androidi, carri armati bipedi (gli ED-209 del 1987) e mercenari come Jackie Earle Haley, il tutto senza raggiungere neanche per un istante il gore dell’originale di Verhoeven. Vietato ai minori di 18 anni negli Ottanta, oggi vietato solo ai minori di 13; basti pensare alla violenta scena da macelleria con cui Peter Weller veniva smembrato a colpi di fucile per capire quanto l’obiettivo sia per forza di cose diverso con Padilha. È anche una questione di moda, se non c’è una morale un film d’azione non ha alcun valore, ma quanto meno il regista brasiliano ha un background saldo grazie a cui rimane fondata la premessa sulla giustizia corrotta anche in RoboCop.

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