Viaggio ad Alcatraz, l’isola dell’ingiustizia
Esistono autori grandi, di quelli prolifici o anche di quelli che no, fanno come Paganini e più di un paio di volte non ripetono il successo.
Poi ci sono, nella loro ombra, i minori, e anche qui c’è chi fa tanto e chi fa poco, chi lascia più segni e chi soltanto uno o al massimo un altro. Marc Rocco, regista californiano classe 1962, rientra in quest’ultima categoria degli ultimi.
Eppure gli si deve più di un grazie per quella piccola perla tornita prima di The Jacket – flop del 2005 da lui scritto e prodotto ma non diretto – e della sua prematura scomparsa, avvenuta nel 2009: piccola perla che reca il nome italiano de L’isola dell’ingiustizia – Alcatraz e quello originale di Murder In The First, omicidio di primo grado.
Oltre il buio delle apparenze
La storia è quella di Henry Young (Kevin Bacon) finito in carcere per un’inezia – e non un carcere a caso: è Alcatraz – e ivi seviziato e costretto all’isolamento per volere del sadico Glenn (Gary Oldman, sulla scia mediatica del suo talento da villain consacrato dal Dracula di Coppola) nonché perché preso di mira dagli altri detenuti.
Uno di questi finisce ucciso per mano sua a colpi di cucchiaio, tre anni dopo il suo ingresso in prigione. Christian Slater, nei panni dell’avvocato James Stamphill, assume il gravoso incarico di difendere il suo caso, tanto simbolico quanto (all’apparenza) privo d’ogni speranza.
Eppure nella progressiva emersione di un concetto di humanitas calpestato fin quasi alla morte e di un background di fragilità e condizionamento sociale molto complesso, si giungerà a una soluzione di compromesso che, non tanto per chi guarda ma per chi è guardato, sarà sinonimo di vittoria.
Le ali della paura
A meno di un anno dal kinghiano Le ali della libertà Rocco propone un film per certi versi diametralmente opposto, meno lirico e più sporco, che non parla di sperare ma di tutto ciò che lo frena: la paura.
Il vero coraggio, diceva qualcuno, non sta nell’ignorarla ma nel superarla, e di questo Young è il simbolo fatto prima di carta (nel romanzo di Dan Gordon) e poi di carne e d’ossa, grazie soprattutto a un Kevin Bacon “ammirevole per intensità e controllata disperazione” (Morandini).
È infatti lui la pura essenza de L’isola dell’ingiustizia, a volte commovente e altre solo ingenua, ma indimenticabile nel suo lasciare il segno di una vita fatta di segni, di un graduale e irreversibile rimanere feriti e di un’idea di libertà di cui s’evince il tratto personale, la peculiarità individuale.
Per la serie: alcuni scavano buche lunghe anni per riuscire a evadere dalla loro gabbia, altri tatuano gli indirizzi delle possibili vie di fuga sul proprio corpo, altri ancora scelgono semplicemente di volare altrove. E le storie che mostrano l’alternativa vanno ascoltate a prescindere.
Francesca Fichera
Voto: 3.5/5