di Francesca Fichera.
La raffinatezza inglese non guasta e non basta mai: ne è l’ennesima conferma The Best Exotic Marigold Hotel (in Italia solo Marigold Hotel), commedia degli equivoci e dei sentimenti divisa fra Inghilterra e, soprattutto, la terra che da quest’ultima è stata dominata e depredata: l’India. Qui John Madden, che ha incantato il popolo con i guizzi romantici di Shakespeare In Love (ma la sottoscritta no, nda), ambienta il 99 % del suo racconto, che vede protagonisti sette anziani (un numero ricorrente nella storia del cinema) accomunati dalla stessa destinazione: per l’appunto, il Marigold Hotel indiano.
La struttura, affascinante e polveroso spettro di uno splendore perduto, è gestita da Sonny Kapoor (Dev Patel, il milionario di Danny Boyle), sognatore impacciato che tenta di mantenere in vita l’eredità paterna a tutti i costi, e nonostante la presenza della madre conservatrice e opprimente che gli fa da ostacolo. I sette nuovi ospiti rappresentano una risorsa da sfruttare in pieno, un’occasione imperdibile ed estremamente necessaria per (ri)costruire quel futuro che Sonny ha in mente di condividere con l’amata Sunaina, giovane e bella “ragazza moderna” operatrice in un call center – lo stesso dove finirà a lavorare una delle anziane inquiline del Marigold Hotel, e cioè la dolce vedova interpretata da Judi Dench.
Il film, partendo dallo schema classico della commedia degli equivoci, a sua volta ripreso da un testo di Deborah Moggach che porta il nome di These Foolish Things (Queste sciocchezze), sviluppa un climax a lento rilascio emotivo e narrativo, intrecciando cuori e storie personali dei sette stereotipi su cui si fonda – la vecchia burbera e razzista di Maggie Smith, la vedova sensibile della Dench, l’uomo che chiude i conti col passato di Tom Wilkinson, la “coppia scoppiata” di Bill Nighy e Penelope Wilton, la single “per scelta” di Celia Imrie e il single in cerca di passione del simpaticissimo Ronald Pickup. In Marigold Hotel, Madden dispiega gran parte dell’eccelsa scuola di recitazione inglese situandola nel marasma variopinto del Rajasthan (ottimamente caratterizzato dalla fotografia di Ben Davis) e riprendendola dinamicamente mentre sfreccia sui tuk-tuk (le carrozzine a motore adibite a taxi) e passeggia per le strade affollatissime della città. Tuttavia, l’alternanza con primi piani eccessivamente insistiti e melodrammatici e alcune soluzioni di montaggio affrettate, specialmente sulla conclusione (là dove si è capito di aver annacquato troppo il brodo) portano a dover considerare il lavoro di Madden ai limiti del riuscito: qualcosa di ammirevole, di notevole, ma non di memorabile.
E, d’altronde, al Marigold Hotel proprio di memoria si parla, e di una visione zen – trasmessa, per fortuna, senza insistenza – che assicura al presente il primato sugli altri tempi. È lì che l’adattamento della Moggach compiuto da Ol Parker agisce al meglio delle sue possibilità: quando, arrivando all’apice del climax cominciato fra i sedili squadrati e silenziosi dell’aeroporto, scrive qualche frase così pregnante da riuscire a solleticare il fondo degli occhi (e dell’anima) degli spettatori. Così da rendere perdonabili, almeno (per) un po’, le contaminazioni di teatralità televisiva che emergono in più di un punto del percorso di questo Attimo fuggente della terza età, comunque e per buona parte godibile e coinvolgente.