di Luca Buonaguidi.
Robert Altman e un film come solo lui sa fare, cinico, ironico, corale, che è poi anche un documentario involontario sull’America delle villette a schiera – quella cartolina poi esportata con esiti discutibili nel dopoguerra d’Europa, per usare un eufemisno – ottenuto intrecciando 9 racconti di Raymond Carver.
America Oggi, capolavoro dei capolavori di questa leggenda spentasi nel 2006, che mai come in questa occasione è riuscito a descrivere i vizi e le virtù, il quotidiano di ogni americano analizzato in ogni gesto trattenendo sempre giudizi involontari che vadano oltre la pura rappresentazione formale, e lasciando così ad ogni spettatore infinite possibilità d’interpretazione.
Ogni personaggio, ogni storia è un film a sé, perché ogni personaggio ha una ferita che talvolta viene resa palese, altre nascosta attraverso vicende pittoresche o testimoniando l’alessitimia altrui, lasciando ad un gesto, una smorfia, la responsabilità di far emergere la vera psicologia dei personaggi, esattamente come avviene nei racconti di Carver.
È un film tondo, un cerchio che non si chiude e che gira su se stesso: la sensazione più disarmante di fronte al cinema di Altman è che potrebbe allungare i tempi filmici a proprio piacimento senza mai perdersi su troppe varianti annoiando o stancando lo spettatore.
La cronaca è amara, grottesca, con abissi di dolcezza in cui perdersi, ma citando Flavio Giurato il film consolida una delle mie poche certezze: “se dobbiamo essere tutti americani, io spero che saremo i nuovi indiani”.