Un mondo senza pietà: ritratto di un trentenne degli anni Ottanta.
Se almeno potessimo prendercela con qualcuno, se potessimo credere di servire a qualcosa, o di andare da qualche parte.
Ma cosa c’hanno lasciato? Un domani felice? Il grande mercato europeo?
Non abbiamo niente.
Non ci resta che innamorarci come coglioni: e questa è la cosa peggiore.
Un mondo senza pietà racconta la vita di Hippo, al crocevia tra Oblomov e Neil Cassady, incarnazione del motto dei CCCP non-studio-non-lavoro-non-guardo-la-tv-non-vado-al-cinema-non-faccio-sport, che senza sogni né recriminazioni particolari si lascia vivere come un pesce rosso in una vasca domestica, in questo caso una Parigi periferica, notturna e sorniona.
È giovane e bello ma anche pigro e testardo, vive e si fa mantenere dal fratellino spaccino liceale contando sulla politica di inerte e bonario non-interventismo dei genitori, che puntano una residua fiducia filiale sul futuro del minore tra i due e si accontentano che Hippo lo tenga a bada.
Disattendendo anche l’unica prescrizione dei genitori e senza un lavoro, passa le giornate a rincorrere le ragazze e sbracandosi sul cofano della macchina con l’amico di sempre Xavier. Non è felice né infelice, non attende nessuno, non spera in niente, non vive che l’attimo presente, anch’esso distrattamente. È fuori dai giochi della società a cui apparterebbe per età e classe sociale e non gliene importa affatto, anzi, ritiene questa la sua miglior fortuna ma senza per questo avere una posizione ideologica di sostegno o idee precise sulla realtà che lo circonda.
Ogni tanto si innamora e si infiamma di passione, ma neppure l’amore che gli riempie la bocca e i pensieri riesce a travalicare il suo innato randagismo. Così l’amore finisce e si riparte di capo, con una dose di serena inquietudine in corpo che a ben vedere non se n’era mai andata via.
Questo film brillantemente grigiastro è un distaccato e ironico racconto dell’insofferenza nei confronti della generazione post sessantotto, che ha cresciuto figli vedovi di ogni utopia e privi di qualsiasi urgenza di sostentamento e ideologia. Liberato dalla pretesa di analisi sociologica ed anzi ispirato da un felice ritmo piatto e senza crismi ideologici, il regista Éric Rochant s’immedesima perfettamente negli umori lenti e stonati del suo protagonista, interpretato da un fantastico Hippolyte Girardot, girando una pellicola che trae profondità e poetica dai momenti interlocutori e, come il suo soggetto, annoia e si annoda laddove la trama degli eventi si delinea un poco.
Ma importa poco, perché non c’è nessun messaggio confezionato per lo spettatore, se ne registra anzi l’assenza in un plausibile impressionismo della disillusione, come quei quadri francesi in cui non succede niente e va bene così perché è l’atmosfera ad avvincerci, in questo caso una Parigi notturna e randagia sul finire degli anni ottanta, con una sceneggiatura incentrata sul suo protagonista ma capace di dare respiro corale al film.
È così che il momento più esplicito ed espressionista di Un mondo senza pietà, il conflitto sentimentale tra Hippo e Nathalie (Mireille Perrier) rivela tutto ciò che manca al primo per sentirsi parte di un mondo che va almeno a velocità doppia della sua, mentre conferma l’adeguatezza della seconda, sebbene a una società marcia: Ma cosa sei, una macchina?, Sì, una macchina per vivere. Perché non decolla neppure questo amore? Perché non ci si può amare a due velocità diverse e perché se Hippo non condanna le ambizioni di Nathalie pur non potendone essere complice, questa cerca incontrovertibilmente di addomesticarne la natura.
Ma è così che Hippo pensa se stesso, fermato da un poliziotto dopo l’ennesimo controllo alla sua auto danneggiata: Non siamo noi i banditi. Noi siamo soltanto nullità. Lasciateci tranquilli. Niente male per essere il ritratto di un trentenne di venticinque anni fa, mentre il mondo diventa giorno dopo giorno sempre più pronto ad accogliere le sgomitanti Nathalie e sempre più incomprensibile agli occhi degli eterni Hippo là fuori, quelli che ancora riescono a godere dei benefici della disoccupazione.
Luca Buonaguidi
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