Nella casa con François Ozon e un foglio bianco.
Verso di te si sale e non si trova,
sempre la prova stimola l’intento,
s’alza la penna, linfa e fiamma sola;
ero quaggiù sospeso ad un accento,
l’aria oscurava, ed ogni mia sconfitta
ti celebrava dentro un nuovo evento
Giacomo Trinci, Chiuso colpito ridisceso a te
Secondo James Hillman la padronanza emergente dell’inesplorato talento di un giovane per l’espressività artistica richiede sempre il riconoscimento guidato di un mentore. Nella casa di François Ozon, partendo da questo spunto, esplora il potere conturbante della scrittura, che da mezzo di riconoscimento di se stessi e degli altri, può sfociare nella manipolazione identitaria attraverso la propria e l’altrui falsificazione.
La vicenda è veicolata dall’aspetto meno originale del grande banchetto di temi e reazioni che la pellicola può suscitare: il rapporto privilegiato tra uno studente meritevole e un professore di lettere atipico. Quest’ultimo, incuriosito da un bizzarro ma virtuoso tema in classe di un nuovo alunno assai timido, ne diventa un mentore a tutto tondo, intravedendo in egli il talento del grande scrittore che egli non ha potuto essere e coinvolgendo e facendosi coinvolgere in aspetti sempre più imbarazzanti e privati della vita propria e degli altri, con una scrittura che da promettente ma ancora incerta si farà sicura e trascinante, a costo di travolgere tutto ciò cui si trova davanti per raggiungere l’ultimo grado di perfezione di un esercizio estetico, la rivoluzione del mondo che le accade, ossia la famiglia apparentemente perfetta dell’amico materialmente più fortunato ma meno dotato, Rapha. Rivoluzione che qui, è solo sfiorata.
Nella casa, una lucidissima intellettualizzazione sull’ambiguità della scrittura, ha solidissime basi con una sceneggiatura dotta ma che sa far vibrare di pura suspense anche il pubblico più pigro, e puntella il pregevole risultato finale grazie alla magnifica interpretazione del giovanissimo Ernst Umhauer che si cala perfettamente nella parte di un giovane Holden più integrato ma forse ancora meno interessato alla suddetta integrazione nella società di riferimento, dedito allo studio indiscriminato per l’illusoria futilità borghese, ben rappresentato dalla madre di Rapha, bella e annoiata signora che muove i primi passi sul viale del tramonto mentre vede ogni ambizione personale allontanarsi a favore dell’unità del nucleo familiare. È lei che Claude elegge a prima musa, è lei che toccherà senza afferrare nella frenesia della poesia e del poeta, che con un verso esemplare di George Heym, sente la follia di chi non l’ama e tale follia si arrende a contemplare e testimoniare.
La pellicola di Ozon si ispira dichiaratamente alla pièce teatrale Il ragazzo dell’ultimo banco del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga, benché l’assalto alla geometria relazionale insita nel film da parte di Claude ricordi quella di Teorema di Pasolini, nonostante mutino la classe sociale e l’esito del mandato seduttivo assegnato all’Ospite, mentre il professor Germain nel suo ruolo di scrittore fallito incuriosito da tutto ciò che non poteva essere e dunque non è stato è un personaggio vicino alla filmografia di Woody Allen, anche per la docile reazione ai drammi insiti nella trama che fanno scivolare lentamente la pellicola dalla vivace commedia sul rapporto tra un outcast e un professore sinceramente appassionato agli alunni più precoci al thriller di seduzioni dei drammatici affastellamenti finali di ruoli, momenti e umori.
Potrebbe inoltre sembrare un film di Claude Chabrol per la componente visiva e per la dialettica tra vicinanza e distanza rispetto al soggetto, ma nei temi ricorda più Luis Buñuel, benché abbia una progressione alla Michael Haneke e approdi non tanto alla disgregazione catartica e finale di un soggetto particolare, quanto all’opposta e amara aggregazione consapevole delle molteplici possibili esistenze, rappresentata con gloriosa grazia nell’ultima indimenticabile scena di un film da vedere e rivedere.
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