L’arte della felicità (Alessandro Rak, 2013)

Qual è la verità dietro l’arte della felicità?

La felicità, l’anima, l’Apocalisse, Buddha e il Dalai Lama: tanti sono miti, personaggi e idee caduti (purtroppo) nel calderone delle mode ma, non per questo, meno buoni.

Rimane alto però il rischio di fraintendere, un po’ goffo il tentativo di distinguersi e di farsi capire, come quello perpetrato da Alessandro Rak con L’arte della felicità.

Confessioni di un tassista

Qual è il segreto dell’essere felici? Si sa solo che è “lo stesso per tutti” pure se diverso, come dice Luciano (con il bel vocione di Renato Carpentieri), zio di Sergio il tassinaro, protagonista della storia, in una delle scene più pregnanti e fluide del film. Non si vede, s’intravede; non può essere compreso, ma intuito. Forse nemmeno è possibile parlare di comprendere, bensì di sentire.

Sergio Cometa (Leandro Amato), similmente  a tanti, ha smesso di sentire la sua vita, e per questo gira in tondo con il suo taxi (che è anche una macchinina meccanica, per chi sa guardare) attorno a un Vesuvio che s’ignora per quanto tempo ancora starà lì a dormire.

Ascolta musica – stupenda, uno dei veri punti di forza de L’arte della felicità – fuma indefessamente, si scontra con gli incontri che fa, con i passeggeri saliti a bordo della sua gabbia a quattro ruote. È un Barone Rampante dei poveri, a suo modo, che ha scelto la strada di Napoli anziché il regno degli alberi per staccarsi e guardare ma, soprattutto, rivisitare. 

Un volo confuso

Qual è il segreto dell’essere felici a due passi dal baratro? Si sa solo che è tutto fuorché ripetere: è liberarsi da tutto ciò che è uguale e pesa, passato o futuro che sia, per conquistare questa famosa terra promessa chiamata presente. Per prendere quell’attimo, vero ed eterno, di cui scrive Alfredo – l’amato fratello di Sergio, animato dal calore di Nando Paone – poco prima di morire. Da uomo libero.

Peccato che sia così facile da farsi quanto difficile arrivarci. L’arte della felicità, confuso e confusionario come ciò che racconta – perché l’anima è bambina e schietta mentre il resto mente – ha da un lato il pregio di saper incoraggiare, entusiasmare, fare da unguento alle ferite della solitudine che affligge i nostri “eterni giorni”.

Dall’altro, il demerito di anteporre il messaggio al canale e al codice facendo di questi ultimi un uso arbitrario, qualche volta fastidioso, con una regia e un montaggio singhiozzanti che optano per le dissolvenze in nero, un doppiaggio – salvo i due casi già citati – che insiste  a sottolineare la “napoletanità” dei parlanti, e una miriade di citazioni cinematografiche attaccate insieme (da La 25a ora August Rush – La musica nel cuore). 

In contraddizione con l’idea portante del film, quel senso di continuità e di unità che tutti dovrebbero avvertire con tutto, e che nel pro-filmico invece è restituito in forma di frammento e di contraddizione (come canta anche Gnut).

Il segreto

Quindi qual è il segreto dell’essere felici a due passi dal baratro e in un mondo di persone sole?

Che stia, per una volta, nell’esporsi, nell’essere fragili e umani senza dettare leggi o dar lezioni? Che significhi unirsi nell’ammettere la mancanza di forza, ricavandola da quest’assunto? Che sia nella Napoli maniacalmente rappresentata ne L’arte della felicità o in una qualsiasi altra città del mondo, ci piace pensare che la vera risposta dello spirito corrisponda a nient’altro che alla solidarietà.

Francesca Fichera

Voto: 2.5/5

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