I prisoners nel mirino di Denis Villeneuve.
La natura ha leggi crudeli da cui siamo soggiogati. Volenti o nolenti, come il cervo nel mirino dell’esperto cacciatore che lo tiene sotto tiro.
Siamo anche noi i Prisoners che danno un nome all’incerta opera cinematografica di Denis Villeneuve: un thriller, senza dubbio avvincente, che per molti versi – a cominciare da alcuni elementi del plot – ricorda il ben più crudo Gone Baby Gone di Ben Affleck, ma che finisce col dare la metà di ciò che ha promesso.
Prima della tempesta
Il momento della semina avviene nella tesa tranquillità che procede lo scoppio della tragedia e del panico: il Ringraziamento festeggiato fra amici, l’avvicinarsi della pioggia, i cliché sulla presunta felicità di una tipica famiglia americana, i segnali di pericolo imminente – come, per esempio, uno sguardo sconosciuto e tetro in soggettiva.
Ma il dramma, come ogni cosa vera, giunge senza annunciarsi esplicitamente: è il troppo brutto per essere reale che irrompe, l’incommensurabilità di un dolore disumano che prova a farsi immagine – come del resto ha già fatto tante volte e ben prima di Ben Affleck, quando bastava un palloncino esploso a far gelare il sangue nelle vene.
A questo punto il cambio di scena è necessario. Altro giro, altro luogo comune: il poliziotto solitario (Jake Gyllenhaal) che trascorre il suo Thanksgiving Day seduto in una tavola calda dominata dalla tonalità più fredda dello squallore – e rendiamo grazie a Roger Deakins per questo.
La chiamata decisiva non tarda ad arrivare e il detective Loki viene catapultato ufficialmente all’interno della storia. Insieme con Paul Dano: l’indiziato principale, il proprietario dello sguardo tetro alle spalle della macchina da presa, il biondino ritardato che sa più di quel che crede ma non può dirlo.
Alle sue spalle la zia stramba Holly (una sempre brava Melissa Leo). Davanti a lui Keller (Hugh Jackman a dir poco in stato di grazia), padre di una delle bambine scomparse, con un’idea fin troppo ferma del ruolo di capofamiglia.
(Dis)umanità al bivio
Ed ecco che la strada concettuale su cui viaggia Prisoners si biforca e in nome di un conflitto variamente esplorato fin dall’antichità: da un lato la nomos, dall’altro la physis. Leggi umane e leggi naturali, razionalità e istinto, sono messe nuovamente a confronto e in rotta di collisione.
Tuttavia nel film di Villeneuve – e sul piatto della bilancia – c’è un peso in più: la fede. Ingombrante, frammentata in mille simboli fisici e verbali sparsi in ogni dove, tracciato invisibile ma fondamentale. Come lo scheletro di una struttura, come la coscienza. Spinta al bene quanto al male, spiegazione per il mostro che prega torturando l’innocente.
Prima piano, poi forte
Dice bene chi osserva in Prisoners e nella regia di Villeneuve un distacco quasi propedeutico a sopportare la sottolineatura di un tale errore del creato: la sottigliezza del confine fra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Di questa siamo veramente prigionieri. Il Keller di Jackman, avvinto dalla sua stessa ambiguità, più di tutti gli altri. E infatti paga più degli altri – oppure, quel che è peggio, sorge il dubbio se venga punito al loro pari.
In Prisoners avanza l’eco di una saggezza spirituale che non è solo antica ma forte della lucidità orientale: una potenza che fra altre mani sarebbe mutata in atto straordinario. E che invece, ancora una volta, si è lasciata irretire dall’irruenza tipica di questo lato del mondo scegliendo la via della risoluzione: affrettata, didascalica e con qualcosa di profondamente stupido nel mezzo.
nondimeno codesto film sono curioso di vederlo,per via del nome del regista. Uno che ti porta sullo schermo La Donna che canta, non può che non esser un genio
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De La Donna Che Canta urge un recupero, questi elogi insistenti da parte di personcine illustri, occhialute e non, mi stuzzicano a più non posso!
p.s.: Prisoners va comunque visto, ma non è uno di quei film che cambiano la vita, che scuotono. Il problema è che aveva tutti i numeri per riuscirci!
– Fran
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