Marty: nella vita di un timido la verità sull’America.
Due giorni, due solitudini, un amore. Ecco spiegato in una sintetica formula l’essenza di Marty, vita di un timido, un piccolo cult di Delbert Mann oggi sommerso dalle centinaia di variazioni sul tema che ha ispirato, capace nell’anno di uscita (1956) di vincere contemporaneamente l’Oscar (furono quattro, con sette nomination) e la Palma d’Oro e poi di una lenta rimozione dalla memoria collettiva.
Scritto da Paddy Chayefsky, si guarda nella sua essenziale brevità come si legge un racconto breve, capace di dire più di tanti melodrammi sull’amore di un uomo e una donna, che poi è pur sempre un incontrarsi, parlarsi, innamorarsi, non a caso i tre tempi di un film dal ritmo compiacente.
Marty è un generoso trentaquattrenne italoamericano, tarchiato ma simpatico come si definisce lui stesso, dipendente in una macelleria che però vorrebbe gestire in proprio, come la sua esistenza del resto, anche se il pensiero di indebitarsi con la banca e una immaturità affettiva nota non permettono al progetto di vita complessivo di concretizzarsi. Marty vive infatti ancora con la affettuosa e gelosa madre Teresa, vedova padrona della casa e devota alla chiesa, la tipica mamma italiana scomparsa da un paio di generazioni, che insieme ai clienti della macelleria lo ossessionano con pressanti inviti a sposarsi e a mettere la testa a posto.
Ma è tutt’altro che una testa matta, fa solo parte di un gruppo di vitelloni in salsa stelle e strisce. In più la sorella della madre, la terribile zia Caterina, rappresenta con il cugino Tommy e sua moglie Virginia la litigiosa altra sponda del fiume su cui Marty vorrebbe approdare nonostante abbia modo di esserne al contempo spaventato. Ma l’incontro con Clara, non più giovanissima maestrina dal cuore morbidissimo e i modi più edulcorati di una intera classe sociale, cambiano radicalmente la sua visione di se stesso, degli altri e della vita, che finalmente scatterà decisa verso una essenziale felicità del cuore: la responsabilità di diventare uomo.
Interpretato da un Ernest Borgnine (Quella sporca dozzina, Il mucchio selvaggio) che ha consegnato il personaggio di Marty all’immaginario collettivo e da Betsy Blair (Il grido, Senilità) Marty è un tenerissimo affresco su come dalle ceneri della noia di un ragazzo pronto al prossimo passo nella società possa accendersi non un fuoco di passioni, ma un focolare tenero e accogliente. Non solo la semplice cronaca dell’incontro fortunato di due sfortunate solitudini ma anche un affresco realistico e senza pelose analisi psicologiche di una classe sociale che sarebbe stata travolta e messa alla berlina dall’avvento del 1968.
Due meriti notevoli per un film docile, che procede senza strappi, trasforma la prevedibilità in arte ed è capace di mostrare come si accantona quell’emozione viscerale che il poeta portoghese Mário de Sá-Carneiro ha definito, da qui all’eternità, la tristezza di non essere mai due.
Luca Buonaguidi