Sulle tracce di Ken Loach con Tyrannosaur di Paddy Considine.
Avete presente Umberto D.? Vi ricordate il piccolo cagnolino che si tramuta in angelo salvatore nell’ultima commovente scena? Sessanta anni dopo la rappresentazione della solitudine umana passa ancora attraverso i cani, che in Tyrannosaur esercitano un’influenza opposta ma parimenti decisiva nella progressione degli eventi e nella risoluzione del dolore atavico dei protagonisti.
Anche Joseph è infatti diverso da Umberto: sessantenne vedovo, alcolista e con i nervi a fior di pelle, oppresso dai propri insuccessi e da una sempre più improbabile sopravvivenza, che si perde in ebbre zuffe di pub e quartiere. Non ancora privo dell’ultimo residuo di autocoscienza, dopo l’ennesimo atroce errore cerca rifugio nel negozio di Hannah, fervente cristiana dalla vita apparentemente perfetta, che caritatevolmente stabilisce un iniziale contatto con Joseph, che avrà enormi esiti imprevisti per entrambi.
Due solitudini che si incontrano e che si cambiano la vita a vicenda, sai che novità. Ma Tyrannosaur non è un film convenzionale, a partire dalla disattesa progressione salvifica degli eventi e dall’impossibilità di risalire a ritratti stereotipati dei protagonisti grazie a uno studio psicologico memorabile sui soggetti. Ad attendere lo spettatore non c’è un happy ending politicamente corretto e cinematograficamente rodato a partire da soggetti simili, ma uno sgomento esemplare e una violenza ritualista, assurda e inspiegabile, perché connaturata all’essere umano.
Il pluripremiato film d’esordio di Paddy Considine è nel solco di quel neorealismo britannico in grado di disturbare e commuovere, debitore della lezione di Ken Loach, che mira a rappresentare lo stesso vuoto archetipico dell’epoca postindustriale e dell’intenso Shame di Steve McQueen, ma che a differenza di questo non trasforma mai i soggetti in espedienti narrativi né cavalca un retorico erotismo.
Grande merito di ciò va agli attori principali, a partire dal protagonista Peter Mullan (già protagonista di My Name is Joe di Loach, non a caso) padrone assoluto di ogni ferocia, smorfia e disincanto, fino a rivelarsi unico possibile veicolo di speranza residua della pellicola; Olivia Colman, terribilmente credibile nei panni di una donna prevaricata, annullata e violata fisicamente e psicologicamente dal marito interpretato da Eddie Marsan, viscido e disturbato.
Gli unici attimi di inatteso sollievo di una pellicola compiutamente opprimente arrivano dalla riuscita galleria di personaggi minori, come il giovanissimo vicino di casa di Joseph, la generosa e allegra disperazione del suo compagno di sbronze, e la fase terminale del cancro del suo migliore amico.
Celebrazione delle corde più taglienti di quel sentimento dell’esistenza in cui consiste quell’invisibile per cui ci alziamo dal letto ogni mattina, Tyrannosaur resta comunque un film amorale e senza corrimano a cui aggrapparsi. Resta invero un unico spiraglio: l’abisso dell’esperienza umana, veicolo dell’unica possibilità di salvezza, redenzione e cammino residua, messaggio certamente lontano dall’originalità, ma che raramente era stato mostrato con una compassione che gonfia così il cuore senza però soccorrere lo spettatore, disturbato da una pellicola umana, troppo umana che commuove (come nell’ultima scena, con la liricissima We Were Wasted dei Leisure Society) e segna un solco profondo e irrisolto nell’immaginario dello spettatore.
Luca Buonaguidi
amo profondamente il cinema del Reale o Realismo e gli inglesi sono bravissimi nel girare queste cose. La pellicola in questione devo ancora visionarla e la tua recensione mi ha fatto venir voglia di vederla quanto prima
ciao! davide
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Ne sono lieto. Ci rileggiamo presto! :)
Luca
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