Rebecca (Alfred Hitchcock, 1940)

All’ombra di Rebecca

Di questo film l’Italia può vantare il remake, in forma di sceneggiato televisivo, con una Mariangela Melato, che ci manca, coinvolta in uno di quei classici “svarioni” di carriera che non ci sarebbe mancato per niente.

Suo era il ruolo che all’epoca dell’esordio statunitense di Alfred Hitchcock fu di Judith Anderson: Mrs. Danvers, la governante dell’immenso e cupo maniero di Manderley, proprietà del ricco e ricercato erede Maxim De Winter – con il volto dell’affascinante Laurence Olivier  rimasto vedovo da poco.

Rebecca il nome della moglie defunta, nonché dell’opera hitchcockiana degli anni Quaranta disseminata di luci soffuse e riferimenti freudiani: un nome che si fa sentire spesso, così spesso da conferire a questo esempio di Hitchcock acerbo e insolito una patina di ridondanza ingenua, diversa dai calcolati leitmotiv di film come L’uomo che sapeva troppo e Vertigo.

Tu chiamala, se vuoi, ossessione

Qui la ripetizione (formale e di concetto) assume una connotazione infantile che è anche foriera del significato pregnante della pellicola e del testo di Daphne Du Maurier da cui è tratta: il peso dell’ossessione, il delicato, faticoso passaggio dal vecchio al nuovo, dalla vita di prima alla vita di poi.

La novità veste i panni di una giovane dama di compagnia, a loro volta calzati all’affettata Joan Fontaine, che a Monte Carlo si imbatte per caso in De Winter e nella scintilla di un amore impetuoso.

I due convolano a nozze nel giro di poco e la confusa sposina fa fin da subito il suo ingresso nel cuore della leggendaria tenuta di Manderley. Ma così come avviene per l’inconscio e la memoria, molte stanze sono chiuse a chiave e chi conosce i vasti corridoi del castello non accoglie bene ciò che da essi è avvertito straniero, a cominciare dalla servitù e dall’inquietante Mrs. Danvers per finire con De Winter in persona.

Rebecca non è un’ombra, è L’Ombra: qualsiasi anfratto oscuro, psicologico o fisico, reca il suo marchio, il ricordo pulsante della sua presenza. E l’ossessione passata di cui Manderley non sa liberarsi è l’incubo presente della neo-sposa, nonché una mannaia sul suo futuro e sui suoi legittimi sogni di felicità condivisa.

Il potere dei classici

La svolta però, come sempre accade in questo tipo di storie, è nell’accadimento tragico: nel venire a galla improvviso del torbido, di tutti gli scheletri semisepolti.

Hitchcock sfrutta questo tipo di trama, che gli è congeniale, con piglio classico, pacato, privo delle caratterizzazioni stilistico-estetiche che faranno della sua produzione successiva qualcosa di totalmente unico nel panorama cinematografico mondiale.

Eppure il suo Rebecca è un film che si fa seguire, che appassiona anche senza strafare, e che arriva  a sciogliere tutti i suoi nodi nel pieno rispetto delle atmosfere e dei luoghi, tanto letterari quanto cinematografici, del genere mystery. E poco importano qualche fermo-immagine di troppo e un paio di dissolvenze sbagliate.

Francesca Fichera

Voto: 4/5

3 pensieri su “Rebecca (Alfred Hitchcock, 1940)

    1. Allora non è stato un trauma solo mio ;) Mal comune mezzo gaudio? (per fortuna che c’è Alfie, e Alfie è intramontabile, a differenza di certi pasticciacci televisivi… sì, lui è sempre un grande, anche quando non è al suo massimo, come in questo caso) :)

      – Fran

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