Dark Blood da lasciar scorrere – di Francesca Fichera.
Dopo i gattopardi, vennero i lupi e gli sciacalli. Ma, forse, qui si cita a sproposito un capolavoro assoluto della letteratura italiana per definire nient’altro che una delle tante operazioni commerciali di basso, finanche infimo livello, compiute dall’industria cinematografica negli ultimi decenni. Ne è responsabile il regista George Sluizer – con la produzione di Jeannie Neill e Nik Powell. Ne è vittima River Phoenix, fratello minore di Joaquin, morto d’overdose durante le riprese del film di Sluizer: per l’appunto, questo visionario (quanto inutile) Dark Blood.
Dispiace vedere un morto usato a mo’ d’ariete (o di cavallo di Troia, sta a voi scegliere) per sfondare le pareti dell’indifferenza e far tintinnare qualche soldo in cassa. Dispiace ancor di più se dietro il marchingegno si cela un’opera, come già detto, assolutamente priva di senso e di eleganza qual è quella concepita da Jim Barton e messa in forma (?) dal cineasta franco-tedesco. Già irrita di per sé il suo mettere le mani avanti parlando alla platea tramite un fastidioso intervento fuori campo, in cui viene spiegata e precisata nel dettaglio la realizzazione del lungometraggio, bloccata per l’appunto dall’improvvisa dipartita del suo giovane protagonista, e ripresa a posteriori attraverso un montaggio volutamente ‘monco’ delle scene in cui Phoenix avrebbe dovuto recitare. Tali buchi, dice Sluizer dopo aver opportunamente tessuto le lodi del defunto, sono stati sostituiti da un fermo-immagine corredato di didascalia, letta ad alta voce ed utile a descrivere l’invisibile della scena, ossia ciò che non è stato possibile mostrare.
Intorno ad essi, come con la groviera, resta in piedi (a fatica) il racconto principale di Dark Blood: lo strano e rovinoso viaggio di Buffy (Judy Davis) ed Harry (Jonathan Pryce) nel deserto dello Utah, dove l’auto li abbandona alla mercé di afa e coyote famelici, e l’unica risorsa rimasta sembra essere uno strambo ragazzo solitario, vedovo e con la sola compagnia di un cane, che vive in una bizzarra baracca a poche centinaia di metri dal luogo in cui è avvenuto l’imprevisto. Tra i due spiriti liberi – quello di Buffy, intrinsecamente fedifraga, e quello di “Boy”, l’uomo della prateria interpretato da Phoenix – fa presto a stabilirsi un contatto a metà fra l’erotismo animale e la spiritualità dei nativi d’America. Nel frattempo, Harry ammattisce di gelosia e di terrore: la porzione di deserto nella quale si trovano è in tutto e per tutto una prigione a cielo aperto.
Finale triste e al limite del pazzesco per il modo in cui riavvolge il nastro logico della vicenda. Per lo meno, fa tirare un sospiro di sollievo a chi, come la maggior parte dei presenti in sala alla Berlinale, non vedeva l’ora di uscire. In quanto a River Phoenix, preferiamo di gran lunga ricordarcelo, fra gli altri, in Stand By Me di Rob Reiner.