Non c’è spazio per il genere nel western tedesco Gold.
Un tempo si usava dire Don‘t Call Me Baby, oggi si è passati al Don’t Call Me Genre: il cinema di genere è visto da autori e fruitori dei festival come fosse la peste bubbonica. La novità dell’attuale Berlinale è un western tedesco, diretto dall’ancora no molto noto pupillo dell’Orso, Thomas Arslan, ma attenzione, non è un film di genere.
Gold è un film realista, formatosi sui diari e le foto degli stormi migratori d’America, in volo verso l’oro del Klondike – quello reso famoso da Chaplin e Zio Paperone.
Protagonista è Emily Meyer, tedesca come i suoi compagni di viaggio provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti per aggregarsi alla spedizione di Herr Laser, deciso a portare i suoi clienti alla cittadina di Dawson, attraverso territori impervi e inesplorati.
Seguono poi i vari cliché, obbligatori, per rientrare nella “categoria”: il Cowboy coraggioso e intrepido in fuga, lo spaventato e il guastafeste spaccone di turno, l’imbroglione e la donna forte (Hawks?), la Nina Hoss tanto amata nel Barbara di Petzold, campi lunghi e cure rudimentali.
Insomma niente di nuovo sulla frontiera occidentale.
Che fine ha fatto il coraggio?
Certo, nulla da dire contro la regia né contro la fotografia iper-realista di Patrick Orth, ma se i personaggi mancano di spessore – l’evoluzione è così lenta e poco motivata da stancare -, se si evita poi di scalare verso il genere a tutti i costi, qual è dunque il motivo per cui ci si dovrebbe interessare a Gold?
Difficile a dirsi, pare che la risposta debba però essere cercata nella fortuna della produzione nell’essere incappati nelle ottime location canadesi, ma un cielo spettacolare e un tramonto delicato son più merito di Madre Natura che della fotografia/regia.
Da promuovere è invece il cast, non solo importante con la presenza della Hoss, ma anche grazie a Marko Mandic (il Cowboy solitario) e Uwe Bohm (il giornalista fanfarone), entrambi parte di una compagnia credibile vestiti però di panni così reali e puliti da risultare noiosi all’occhio. Noiosi perché la sola sensazione è quella, in due ore di film sacrificate per la Competizione ufficiale della Berlinale.
Fausto Vernazzani
Voto: 2/5