BERLINO63: Promised Land (Gus Van Sant, 2012)

di Francesca Fichera.

Il film Gerry, seconda collaborazione di Gus Van Sant con Matt Damon alla sceneggiatura, iniziava con un viaggio, una lunga strada che si snodava per chilometri spaccando in due le ostili terre di confine dell’America più profonda. Promised Land comincia allo stesso modo – volendo escludere quei pochi minuti utili a introdurre al pubblico il personaggio di Steve Butler, interpretato dal sempre bravo Damon.

Steve è prossimo alla promozione, lavora per una multinazionale, la Globe, che porta il gas ovunque può, non curandosi delle radici, fisiche e affettive, che va a estirpare per installare i suoi gasdotti. E nella Globe c’è anche Sue, un’ottima – as usualFrances McDormand, risoluta a concludere il maggior numero possibile di contratti e a fare il suo dovere.

Ma il piccolo paese di McKinley rappresenta un decisivo intoppo al fluido scorrere del lavoro di Sue e Steve: in primis perché c’è Frank Yates (Hal Holbrook), esperto di scienza in pensione, ora dedito all’insegnamento, che conosce le reali intenzioni della compagnia e sceglie di denunciarle pubblicamente parlando contro Steve durante un’assemblea comunale. In secondo luogo c’è l’imprevisto (che tanto imprevisto non è), ossia l’attivista della Athena Dustin Noble (con le fattezze dell’attore John Krasinski, sexy e gigione, nonché terzo elemento preposto alla stesura della screenplay), che mette in guardia gli abitanti del villaggio da un imminente disastro ambientale. Sullo sfondo, le cosiddette “cose che contano”: prima di tutto l’amore (condito con il solito, telefonato triangolo sentimentale), poi la famiglia – sullo stesso piano dell’onestà e della coscienza.

Con Promised Land fa il suo ritorno, anche se in sordina, il tema del viaggio come duplice forma di ricerca: un nomadismo interiore che usa l’esterno – e l’esteriorità – per trovare un punto di equilibrio, un luogo fisico e mentale in cui poter sostare. I personaggi tratteggiati dal duo Damon/Van Sant rappresentano l’emblema di questo tipo di conflittualità; anche in quest’ultimo lavoro, dove l’esteriorità stricto sensu finisce col prevalere sull’interiorità, abituale protagonista del lirismo vansantiano. E dove hanno la meglio (purtroppo) un happy ending al rallentatore, che ribalta l’infame destino delle Idi di Marzo di “clooneyana” memoria,  e i miliardi di riprese dall’alto e di panoramiche in time-lapse. Oltre, naturalmente (guardiamo il lato positivo), alla simpatia della McDormand e all’indubbie intelligenza e freschezza dei dialoghi. Che, d’accordo, non basteranno di certo a fare di Promised Land un capolavoro. Ma sono sufficienti. Appena o anche di più.

Un autore come Van Sant può permetterselo.

 

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