di Francesca Fichera.
Il film Gerry, seconda collaborazione di Gus Van Sant con Matt Damon alla sceneggiatura, iniziava con un viaggio, una lunga strada che si snodava per chilometri spaccando in due le ostili terre di confine dellAmerica più profonda. Promised Land comincia allo stesso modo – volendo escludere quei pochi minuti utili a introdurre al pubblico il personaggio di Steve Butler, interpretato dal sempre bravo Damon.
Steve è prossimo alla promozione, lavora per una multinazionale, la Globe, che porta il gas ovunque può, non curandosi delle radici, fisiche e affettive, che va a estirpare per installare i suoi gasdotti. E nella Globe cè anche Sue, unottima – as usual – Frances McDormand, risoluta a concludere il maggior numero possibile di contratti e a fare il suo dovere.
Ma il piccolo paese di McKinley rappresenta un decisivo intoppo al fluido scorrere del lavoro di Sue e Steve: in primis perché cè Frank Yates (Hal Holbrook), esperto di scienza in pensione, ora dedito allinsegnamento, che conosce le reali intenzioni della compagnia e sceglie di denunciarle pubblicamente parlando contro Steve durante unassemblea comunale. In secondo luogo cè limprevisto (che tanto imprevisto non è), ossia lattivista della Athena Dustin Noble (con le fattezze dellattore John Krasinski, sexy e gigione, nonché terzo elemento preposto alla stesura della screenplay), che mette in guardia gli abitanti del villaggio da un imminente disastro ambientale. Sullo sfondo, le cosiddette cose che contano: prima di tutto lamore (condito con il solito, telefonato triangolo sentimentale), poi la famiglia – sullo stesso piano dellonestà e della coscienza.
Con Promised Land fa il suo ritorno, anche se in sordina, il tema del viaggio come duplice forma di ricerca: un nomadismo interiore che usa lesterno – e lesteriorità – per trovare un punto di equilibrio, un luogo fisico e mentale in cui poter sostare. I personaggi tratteggiati dal duo Damon/Van Sant rappresentano lemblema di questo tipo di conflittualità; anche in questultimo lavoro, dove lesteriorità stricto sensu finisce col prevalere sullinteriorità, abituale protagonista del lirismo vansantiano. E dove hanno la meglio (purtroppo) un happy ending al rallentatore, che ribalta linfame destino delle Idi di Marzo di clooneyana memoria, e i miliardi di riprese dallalto e di panoramiche in time-lapse. Oltre, naturalmente (guardiamo il lato positivo), alla simpatia della McDormand e allindubbie intelligenza e freschezza dei dialoghi. Che, daccordo, non basteranno di certo a fare di Promised Land un capolavoro. Ma sono sufficienti. Appena o anche di più.
Un autore come Van Sant può permetterselo.