Tutti i santi giorni (Paolo Virzì, 2012)

di Fausto Vernazzani.

La cosa peggiore del cinema italiano è che ogni qualvolta si parla di un film prodotto in Italia si è costretti a parlarne in toto. Ci rendiamo conto solo adesso che in tutti noi c’è della speranza nascosta e chiusa tra le nostre costole, la speranza di poter dire ogni tanto che la nostra industria non è così terribile. Purtroppo lo è, ma di tanto in tanto abbiamo il diritto di pretendere un buon film, ed  è per questo forse che il caso (o il caos) ci manda quei pochi registi che ancora ci possono sorprendere o far sorridere, come Matteo Garrone o Paolo Virzì. Da Ovosodo a My Name is Tanino, del regista lucchese son da amare più di un film, compreso lo spontaneo Tutti i santi giorni.

Guido/Luca Marinelli è una persona talmente introversa che la sua chiusura agli altri si manifesta in un eccesso d’abbigliamento che sembra fargli da guscio. Antonia/Thony è aperta, viva, solare, ma cambia il colore dei capelli nel vano tentativo di trasformarsi in una persona diversa da ciò che è. L’inserimento di una virgola tra due frasi può fare miracoli, unire due persone spinge l’individuo a cambiare in meglio quando l’incontro è fortunato come quello tra i nostri due protagonisti.

Da 6 anni vivono insieme, sei lunghi anni d’amore, passione e di risvegli fatti di Santi e Martiri, le cui vicende vengono riassunte ogni mattina da Guido e servite insieme al caffè ad Antonia. Vivono a tempi alterni, lui portiere notturno in un Grand Hotel, lei impiegata alla stazione ferroviaria, affrontano difficoltà insormontabili per tanti altri, ma non hanno ancora soddisfatto il loro desiderio più grande: avere un bambino. Una virgola di troppo può esser fatale, unire una frase in più fa venire il mal di testa e fare un figlio può essere la comprensione definitiva di un rapporto e del partner.

Tratto dal romanzo Le Generazioni di Simone Lenzi, sceneggiatore insieme allo stesso regista e all’eterno suo collaboratore Francesco Bruni, Tutti i santi giorni è una favola d’amore vero, quello che rompe ogni barriera e non resta rinchiuso nel turbolento immaginario filmico che lo vuole sempre impossibile. Paolo Virzì riesce in un’impresa ben più grande di lui, girare un film sentimentale credibile nonostante i limiti e le imposizioni produttive: la pellicola scivola così attorno ai cliché dei classici tamarri e burini di provincia, scansa i ridicoli ritratti dei popoli esteri ed evita di cascare nella falsità di molti brutti dialoghi pieni di banalità. C’è del ridondante, c’è della sovraesposizione nel racconto delle differenze tra le due regioni di provenienza di Guido ed Antonia, (lui Toscana, lei Sicilia) ma Virzì, che come al solito sguazza nello stereotipo, riesce nell’intento – voluto? – di non prendersi troppo sul serio.

Insieme sullo schermo Marinelli e Thony (nome d’arte di Federica Victoria Caiozzo) fanno una gran bella figura, lui stella sulla strada per diventare un Sole nel panorama attoriale italiano (bravissimo fu ne L’ultimo terrestre), lei attrice mediocre come tanti, giustificata nel suo essere esordiente (al contrario di tanti altri), ma ottima cantante. Una voce coinvolgente e dal sapore esterofilo che dà un tocco di globale ad una pellicola che rischiava d’essere faro del terrore della globalizzazione, figura carismatica ben illuminata da Vladan Radovic e destinata ad un successo musicale che sarebbe ben più che meritato.

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