CANNES65: "On the Road" e "Io e Te", il Cinema che delude tre volte su quattro – parte II

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The Paperboy, ahimè, non è competitivo, come d’altronde non è competitivo il tanto atteso – ma anche no… – On the Road di Walter Salles. Il regista brasiliano, che la storia ricorderà sempre e comunque per I diari della motocicletta, ha pensato di confrontarsi con un altro testo generazionale ed epocale, e lo ha fatto con una certa rischiosa leggerezza: il pericolo, purtroppo non scampato, era quello di replicare il film cheguevariano adattandolo alla storia di Jack Kerouac. Ma ha ancora senso, oggi, in un momento storico in cui anche il cinema ha capito che i propri orizzonti più floridi si sono stabiliti nel post-moderno, nella decostruzione, nel surreale, nel concettuale, portare in scena un romanzo come On the road srotolando la sequela di situazioni-stereotipo dell’autostrada che si tuffa nel sole al tramonto, del bar sotterraneo e fumoso in cui cantano e ballano i jazzisti di colore, del Messico trasgressivo e caliente? È ovvio che tutto è cinematografabile e, come ha detto deliziosamente Domenico Starnone, “se il cinema ammette che c’è qualcosa che non può filmare, allora il cinema è morto”, ma forse era più giusto che un’opera così fondamentale (non tanto per la sua qualità letteraria, ma per il suo making of, e per la vita del suo autore) rimanesse – in mancanza di idee geniali – “solo” un libro, legato a un momento ben preciso, a cui i lettori di ogni epoca a venire possano accostarsi decidendo col proprio giudizio se invecchia male o invecchia bene, se regge la prova del tempo o se non lo si può sottrarre alla temperie pre-beat generation.

Sul piano cinematografico, io mi sono esaltato solo negli ultimi venti minuti: da quando Sal è in Messico e torna a New York per stendere finalmente il suo romanzo, ricopiando gli appunti su un rotolone di carta da telescrivente. Sì, mi sono emozionato, ma mi sono anche chiesto se, su 130 minuti, ne bastano poco meno di venti per salvare un film. No, forse no. Ma, fossero stati – immaginiamo per un attimo – in un film a episodi sulle grandi storie della letteratura, Walter Salles avrebbe fatto davvero un figurone.

Tra gli attori, chi si comporta meglio è Garrett Hedlund nel ruolo di Dean Moriarty. Compaiono anche Viggo Mortensen e Steve Buscemi, perfetti, ma sappiamo bene che questa è gente che significa garanzia. Kristen Stewart, la signorina Twilight, si diverte a fare la gatta morta e a mostrare la sua nudità, ma non me la sentirei di dire – per usare un eufemismo – che è la nuova Faye Dunaway, sensuale spalla degli outsider.

E poi, infine, mi sono arrabbiato quando ho visto Io e te di Bernardo Bertolucci. L’accoppiata delle meraviglie Rai Cinema-Medusa ha lanciato un’avvisaglia già nei titoli di testa – molto graziosi – ma sarebbe stato meschino giudicare a priori, guardando i jingle. Poi vedi questo ragazzo brufoloso (Jacopo Olmo Antinori, con un bel futuro davanti a sé), asociale e/o sociopatico, e la tormentata madre (Sonia Bergamasco) che si danna inutilmente per farlo ragionare con normalità. Assisti al suo colpo di coda: diserta di nascosto la gita scolastica per rinserrarsi nella cantina del suo palazzo, in compagnia di sette coca cole, sette scatole di tonno, sette succhi di frutta, sette eccetera eccetera, e un formicaio. Di quel posto possiede la chiave solo la sorellastra Olivia (Tea Leoni: farà carriera anche lei): tossicodipendente, prova a esprimersi con la fotografia, frequenta individui loschi, ha piani di vita fintamente edificanti.

Sei lì e speri che Bertolucci gestisca con le sue pennellate sublimi la voglia matta che ha Ammaniti di asserragliare i suoi personaggi in buchi oscuri e sporchi.

E invece il disastro: prevedibilità assoluta di dialoghi e soluzioni stilistiche, guizzi registici col contagocce, vena poetica arida. Ma io, comunque, in quanto film di Bertolucci, me lo sono guardato con assoluta dedizione, provando a intravedere ovunque, anche negli spigoli della stanza, anche nelle pieghe delle stoffe, la mano del maestro. L’ho intravista. Ma c’è stata una cosa che non ho potuto accettare. Una scena di fronte alla quale sono rimasto incredulo. Spero che venga presto ottobre, così potrete vedere il film anche voi, e vi accorgerete dello stridore alla carta vetrata.

Mi è piaciuto molto quello che ha scritto Bruno Fornara del cinematografo. Ha detto che è “un piccolo film, quasi indifeso”, “un film minimo”, “un film malato e inguaribile”. Ha concluso: “Voto 3 stelle, perché è di Bertolucci”.

Però io mi chiedo: maestro, perché? Perché?

Elio Di Pace

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