Magdalene (Peter Mullan, 2002)

di Francesca Fichera.

La sagoma minuta di una suora campeggia sullo scuro sfondo geometrico di un portone chiuso. Questa e altre mille scene tatua nella mente Magdalene, contestatissimo capolavoro di Peter Mullan – che intanto si guadagna un Leone d’Oro nello stesso anno d’uscita del film, il 2002. Di quella Chiesa che per far redimere le giovani figlie d’Irlanda crea ad hoc le case-prigione della Maddalena, gestite dalle Sorelle della Misericordia (tutto fuorché misericordiose), la tragedia firmata da Mullan critica non tanto l’autorità divina, bensì – e fortemente – quella terrena. Come in cielo non è in terra, sembra voler urlare nel cuscino l’angosciante racconto del regista scozzese. Una storia al femminile, che un odioso luogo comune linguistico potrebbe definire “a tinte rosa”, e che invece il direttore della fotografia Nigel Willoughby immerge in un bagno di colori tenui, da brughiera, essenza del grigiore opprimente che si respira tra i fumi dei conventi-lavanderia di Magdalene. Quattro le reiette della società irlandese che Mullan sceglie a mo’ d’esempio per mettere in scena una realtà fra le più dure: Margaret (Anne-Marie Duff), sedotta da un cugino e per questo ritenuta indegna di abitare la sua casa; Bernadette (Nora-Jane Noone), orfanella dagli occhi da gatta la cui “vivacità” è trasformata in pretesto per un nuovo tipo di reclusione; Rose (Dorothy Duffy), ragazza madre il cui figlio, strappato ancora in fasce dalle sue braccia, rappresenta l’onta più grave da scontare; e infine Crispina (Eileen Walsh), poco intelligente e perciò da punire/pulire – anche perché già mamma da qualche anno di un bambino, condotto dalla sorella al limitare del giardino del convento per incontrarla in gran segreto.

Dentro Magdalene la macchina da presa è onnicomprensiva, colloca alla perfezione i personaggi – le donne, in tal caso – nella scenografia, insiste sul dialogo fra umanità, disumanità e paesaggio, rendendolo concreto. Il risultato va ben oltre la semplice riproduzione dei principali vizi che l’immaginario collettivo lega ai rappresentanti della sfera ecclesiastica – l’avidità, il sadismo, le (mal) celate perversioni. Quello che il film di Mullan (presente, fra l’altro, in un funzionale cammeo) imprime con rara potenza nella memoria è il senso di un destino segnato senza alcuna possibilità di riscatto, la disperata e disperante visione di un trauma indotto da un contesto sociale sbagliato e abietto. Monache che abusano del loro potere per giocare con la dignità di povere anime già delegittimate, private di un qualsiasi ruolo “rispettabile” all’interno di quella stessa società da cui sono state rinnegate per questioni di mera apparenza, e che pare ostinarsi ad ignorare la lordura nascosta dal tappeto: questa è la ferocia su cui Mullan punta i riflettori, spiegando allo spettatore che non esiste limite quando troppi sono i limiti imposti. Come i contorni rigidi, definiti, neri, entro i quali Sorella Bridget – una Geraldine McEwan di gelida crudeltà – poggia la schiena per riposarsi dopo un duro attacco alla struttura del suo infallibile ordine. La geometria primordiale, quella della piccolezza, dell’infimo confronto tra terra e firmamento, è tutta in quel simulacro di perfezione che lo sguardo registico, lievemente irregolare e traballante, danneggia e spoglia. E nudo è il prete che corre nell’erba, in una scena di inaudita violenza che devasta lo stomaco preparandolo a digerire le didascalie finali. Del resto, niente in Magdalene prelude al buono, ed anche la più fervida speranza, contenuta nelle pupille accese della ribelle Bernadette, è macchiata da una punta di dolente irreversibilità. Allo scorrere delle conclusioni, sull’avvolgente commento sonoro di Craig Armstrong, più della reazione divampa il desiderio che, per quanto breve, il tempo delle Magdalene Sisters non fosse mai scorso.

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4 pensieri su “Magdalene (Peter Mullan, 2002)

    1. Di fronte a film del genere non è raro sentire commenti (solo alla lettura della trama) del tipo “pesante!” oppure “madonna depressione!!”, e l’augurio (o vana speranza?) è di vedere, un giorno, riequilibrarsi il gusto in direzione di un Cinema che sia presa di coscienza forte, riabilitazione di quel senso critico che sembra essersi perso fra i meandri generazionali. Un Cinema che non mitizza, non gioca a far retorica, racconta, fa vedere, mostra. E basta. Ma il suo modo di mostrare affonda il coltello in realtà erroneamente dimenticate, trasformando la finzione in verità.

      “Good fiction is the truth inside the lie”, diceva SK. Non finirò mai di ripeterlo.

      (ho un po’ delirato, forse? ^^)

      Alla prossima – Frannie

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      1. Concordo.Io poi deliro di par mio perchè i miei miti oltre il mito sono Von Trier e i Dardenne che non c’entrano un cazzo tra loro,ma fanno CINEMA!Potentissimo,necessario,capace di far partecipare,arrabbiarsi e insomma ben vengano dunque i film come magdalene

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