Poetry, sulla la persistenza della poesia.
Un brindisi alla morte: cinque uomini prendono accordi per insabbiare la vicenda che coinvolge i loro figli e una quattordicenne stuprata. Trangugiano birra sorvolando sul suicidio della ragazza, pensano al futuro della prole, al prestigio della scuola, al cibo.
Sullo sfondo un’anziana donna di nome Mija contempla i fiori. Prende nota di qualcosa. È la nonna di uno dei ragazzini responsabili della violenza.
È lo svelamento, il primo di quella lunga e pesante catena di rivelazioni che è Poetry, l’ultimo film di Lee Chang-dong. Una delicata epopea sulla solitudine che è finché non si guarda al dolore che vive in tutte le cose, e alla bellezza al suo interno.
Poesia dello sguardo
La mite Mija si fa portavoce dello sguardo nudo del poeta: il racconto è intorno a lei e dentro di lei.
La macchina da presa ne è testimone, raccoglie il sottile filo, rosso di sofferenza – come le camelie disseminate lungo la strada – e lo tira con decisione, ma piano.
Non è mai incerta finché c’è lei, occupata a ripercorrere il cammino, proprio e degli altri, per assicurarsi che la memoria illumini ogni cosa. Prima del buio dell’Alzheimer.
Un cerchio lasciato aperto
La poesia diventa ancora di salvezza, profumo fra i cadaveri. Impregna la pellicola e la ravviva, rendendone armonioso il ritmo attraverso leggeri frammenti che il regista sparge come petali, senza retorica – il mostro in agguato per tutti i poeti.
Lentezza e circolarità fanno di questa perla una brillante gemma del cinema coreano contemporaneo. Un anello di simbologie floreali, ripetizioni di luoghi, volti e rituali, che si chiude sul finale meravigliosamente aperto.
Lì Mija scompare e, con lei, la fissità della regia: lo sguardo ritorna a tremare, atterrito dalla meraviglia, dalla potenza della condivisione. E i versi decl-amati calmano e colmano, come dovrebbero fare sempre.
Francesca Fichera
Voto: 4.5/5