"Fratelli d'Italia": L'armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1966)

Viva l’Italia di Brancaleone – di Elio Di Pace.

Dato che è periodo, partiamo da un dato statistico. L’Academy ha sempre tenuto in scarsa considerazione la commedia all’italiana, il più maestoso ciclo di affreschi su una società e i suoi “attori” dai tempi della Comédie humaine raccontata su carta da Balzac e Stendhal. Solo in due occasioni siamo arrivati sin lì: I soliti ignoti e La grande guerra.

E guarda caso, a Balzac è stato paragonato (da Curzio Maltese) il maestro Mario Monicelli, il quale si è scrollato di dosso questa ideale effige essendo occupato a rivoltarsi nel suo sepolcro, scorgendo dall’alto il degrado del cinema italiano mainstream, che, tra le innumerevoli (e tristemente ordinarie) epifanie malevole, si è arrogato la libertà di storpiare Amici miei, propaggine malinconica del vitellonismo.

Torniamo indietro, che è meglio. 

Parla Monicelli:

Age scrisse la storia di quattro disgraziati nel Medioevo, un Medioevo realistico, popolato di analfabeti, di malattie, di guerre assurde, di tornei grotteschi. Il Medioevo doveva essere più simile al mondo come l’abbiamo rappresentato noi che a quello di tanti altri film in costume, e i fondo anche se forse erano un po’ più ricchi, credo che i soldati di Re Artù erano un po’ come quelli dell’Armata Brancaleone.

Un po’ di trama

L’anziano mercante ebreo Abacucco (Carlo Pisacane, già Capannelle ne I soliti ignoti) entra in possesso di un’investitura per il feudo di Aurocastro, in Puglia. Il vecchio si rivolge a uno scalcagnato e acrobatico cavaliere a nome Brancaleone da Norcia, un eroe fattosi da solo dopo essere stato ripudiato dalla nobile famiglia.

Brancaleone, in sella al giallo e sornione destriero Aquilante e sulle note del sensazionale leit-motiv inventato da Carlo Rustichelli, si fa “duce” (vocabolo che nel film si sente spessissimo, naturalmente accoppiato al clownesco protagonista: fate due più due…) di una esigua armata di discutibili prodi, cui si aggiunge (dopo aver perso un duello) il bizantino Teofilatto dei Leonzi, personaggio snob ante litteram con tanto di erre moscia interpretato da Gian Maria Volontè (che fu imposto dal produttore Cecchi Gori: Monicelli voleva Raimondo Vianello, “per quella sua aria da aristocratico un po’ fasullo”).

Sul loro percorso incontrano tutti i tratti distintivi del Medioevo: una cittadina su cui si è abbattuta la peste, con Vittorio Gassman che rischia di essere contagiato da una assatanata vedova; uno stuolo di invasati capeggiati da Zenone il santone (esilarante Enrico Maria Salerno) che sta andando in Terrasanta, a cui l’armata si aggrega fin quando proprio Zenone non cade da un ponte pericolante; la corte bizantina della famiglia di Teofilatto, con il sire che imprigiona Brancaleone; la storia d’amore proibita del protagonista con la bella Matelda, promessa in sposa a un bifolco (ma non se ne fa un problema Teofilatto…); per finire con il memorabile assalto alle mura di Aurocastro da parte dei Saraceni, e il finto “arrivano i nostri” con duplice beffa finale.

Gassman, un mattatore donchisciottesco

La fantasia di Monicelli, Age e Scarpelli ha partorito tutto questo, una specie di Sette Samurai all’italiana, in cui, nonostante un cast tecnico come al solito eccezionale (oltre al già citato Rustichelli, Piero Gherardi ha curato scene e costumi, Carlo Di Palma la fotografia, Ruggero Mastroianni il montaggio) l’elemento caratterizzante è la sceneggiatura: i magnifici tre della commedia italiana hanno sintetizzato un italiano medioevale misto a latinismi e desinenze romanesche che ha esaltato la raffinata dizione di Gassman (che nel secondo episodio, Brancaleone alle Crociate, del 1970, litigò con Monicelli il quale aveva tolto importanza all’elemento “voce”).

Con l’ammirazione dovuta agli altri personaggi, interpretati alla perfezione da tutti gli attori, va fatta una menzione a Gassman e al suo Brancaleone: tragico a teatro, proprio grazie a Monicelli il Mattatore si è affermato anche come strepitoso attore di commedia, e qui ha restituito un paladino che definire donchisciottesco sarebbe addirittura riduttivo, date le infinite sfaccettature che ha saputo dare al suo personaggio. Sul solco aperto dal colorato Medioevo di Monicelli si muoverà, ovviamente con diversi intenti e diverse suggestioni, il Decameron di Pasolini.

Il Cinema con la maiuscola di Monicelli

Per finire si devono menzionare almeno altri due momenti in cui il Cinema si rivela in tutta la sua maestà, con sapori differenti: i preliminari di sesso sadomaso di Brancaleone con la focosa Teodora e la commovente scena della morte di Abacucco, accompagnato nel trapasso dai suoi compagni di sventure.

De L’armata Brancaleone a casa ho il VHS che usciva con l’Unità. C’erano due collane, quella sul cinema americano e quella sul cinema italiano. Dentro ogni cassetta usciva una scheda storico-critica di Ugo Casiraghi, conoscitore della Settima Arte davanti al quale bisogna togliersi il cappello.

Ci serviremo delle sue illuminate parole per capire l’essenza di questo film:

L’ilarità non copre affatto il sentore di disfacimento e di morte. Attenzione al trapasso di Abacucco e al tenero addio che Gassman pronuncia. È un momento che la dice lunga sul sottofondo serio del film.

Di ciò c’è un indizio già all’inizio. E questo è quanto.

P.s.: Viva l’Italia. Questa Italia.

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