It's a Sin - CineFatti

It’s a Sin senza scampo

La crudeltà dilaga nella miniserie di Russell T Davies

La dignità è uno scudo fragile, le nostre deboli strutture sociali la grattano via come sporcizia al primo accenno di un ostacolo. Può togliertela una difficoltà economica, verrà strappata via senza misericordia da un’improvvisa assenza di salute. Sarebbe giusto ciascun cittadino del mondo fosse messo nelle condizioni di poter proteggere la propria dignità e vivere se stessi in piena libertà, tuttavia ciò che è giusto e ciò che è sono due concetti ancora molto distanti fra di loro. Il caso della ragazza ventiduenne di Castelfiorentino, Malika, mi ha riportato alla memoria una bellissima miniserie, It’s a Sin.

Avevo deciso già di parlarne perché il mio per Russell T Davies è stato un vero colpo di fulmine nelle settimane post-Years and Years e anche se il capolavoro non è stato raggiunto dal suo lavoro più recente, continua a dimostrarmi di essere un maestro della penna. C’è poco da fare, gli inglesi hanno fra i migliori sceneggiatori (Peter Morgan, penso a te). Comunque, il collegamento tra la vicenda di Malika – vi invito a dare un occhio a questo video di Fanpage – è semplice: It’s a Sin racconta l’ondata di AIDS abbattutasi sulla “libera” comunità omosessuale di Londra arrivata all’inizio degli anni Ottanta.

Nella capitale sfociano storie diversissime: Ritchie (Olly Alexander) dall’arrivista classe media finto progressista di un’isola al largo, Colin (Callum Scott Howells) è l’orfano timido e ben educato giunto nella capitale per farsi strad senza calpestare i piedi a nessuno né imporsi sul prossimo, Roscoe (Omari Douglas) fugge da una famiglia di bigotti prima di essere esorcizzato per poter vivere liberamente la sua identità e sessualità. Tutti loro convergeranno in un bar per omosessuali, ciascuno stringerà amicizia con Jill (Lydia West) e il suo desiderio di vivere quella libertà da testimone, libertà tutt’altro che tangibile.

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Lydia West, già vista come la transumana di Years and Years.

L’identità libera

Trasmette gioia saperli in un ambiente dove sono amati, accolti, liberi. Ritchie sorride e chiude in un cassetto la paura, cambia carriera universitaria, impara a conoscersi e a vivere come coi genitori non ha mai potuto. La sua è la storia esemplare fra tutte, pur non essendo Olly Alexander il protagonista lo diventa perché è una voce fuori dal coro: la sua personalità esplode letteralmente sino a rifiutare qualsiasi cautela pur di mantenere il controllo dell’identità ritrovata. Verrebbe il desiderio di bollarlo come un colpevole per la sua incredulità sul pericolo AIDS, ma è lo spettro dei suoi terrori che Ritchie nega.

Infatti l’AIDS è un momento storico, Davies nella malattia individua la cornice entro cui raccontare un dramma ancor più grande: la vulnerabile libertà vinta dai protagonisti di It’s a Sin. Fra loro formano una famiglia, si poggiano l’uno sulle spalle dell’altro, chi più chi meno – Ritchie è certamente distaccato in confronto ad altri – lavora per il sostegno della felicità di ciascuno. La malattia però arriva, senza far rumore: si sa, il virus HIV fu nei primi tempi etichettato come la falce degli omosessuali e chi più gioioso di una società crudele nel vedere una fetta della popolazione sparire in silenzio?

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Ritchie vs la crudeltà di stato

La punizione divina calata dall’alto sui peccatori, It’s a Sin li coglie uno a uno come un tristo mietitore chiamato dai governi, dalla società tutta per spazzare via la vita che si rifiuta di voler riconoscere. La crudeltà dell’AIDS è difatti nelle mani di chi ignora la sofferenza, di chi riprende in casa propria i figli e le figlie malate nascondendole nelle loro antiche camerette. L’infanzia vista come il ricordo di un periodo in cui ciò che concerne il sesso ancora non aveva sporcato il fiume. Lì viene affogata la dignità dei protagonisti e dei personaggi secondari incontrati sul cammino, soli e abbandonati.

Ecco la risposta alla domanda, perché il caso Malika mi ha fatto pensare a It’s a Sin. La ragazza cacciata con violenza dalla famiglia è una storia fin troppo simile a quelle raccontate da Davies, ambientate ben quarant’anni fa. Cos’è cambiato? Sono stati compiuti passi da gigante, negarlo sarebbe un insulto alle centinaia di attivisti che hanno lottato per decenni, ma la crudeltà resiste stoicamente con e senza virus calati da Dio, una violenza inaudita che Davies affronta a viso aperto in un finale drammatico dove pesano le parole e le giuste condanne da lanciare ai mille colpevoli. Non dirò di più, guardatela.

Una cosa la voglio dire, preparatevi a piangere.

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