Sto pensando di finirla qui - CineFatti

Sto pensando di scriverlo qui

Verso la fine della vita con Charlie Kaufman.

Charlie Kaufman è un genio. Appellativo abusato ai giorni nostri, a volte basta un gioco di parole ben piazzato a farci gridare al genio, ma per me Kaufman lo è davvero. Le sue sceneggiature sono l’antitesi del cinema americano. Si avvolgono su sé stesse, non hanno un canovaccio lineare e nella maggioranza il finale è tutt’altro che conciliatorio. Synecdoche, New York fu come sentire un coltello affondare lentamente nella mia voglia di vivere.

Specifico subito perché vista l’accoglienza di Sto pensando di finirla qui, nell’era Nolan sembra la genialità sia da attribuire alle storie percepibili come complesse. Kaufman non scrive film di difficile comprensione, ma pone a sé stesso in immagini degli interrogativi esistenziali. L’equivoco può nascere dalla crescente necessità odierna di vedersi imboccata una singola chiave di lettura dagli appigli il più evidenti possibile allo spettatore.

Leggere un testo visivo di Kaufman e sperare di trarne una conclusione univoca è una chimera. È evidente come Kaufman spinga verso una direzione, ma quanti di noi confrontandosi davanti a un caffè potranno affermare con assoluta certezza di aver avuto ognuno la medesima impressione dopo aver visto Sto pensando di finirla qui? Credo possa definirsi un’impresa impossibile, per cui la seguente sarà solo la mia visione.

Direi con spoiler, ma come cazzo si spoilera questo film?
Se leggerete senza aver visto, vi assicuro: non capirete niente.

Facciamola finita

Lucy è in macchina con Jake a ripetere fra sé e sé che sta pensando di finirla qui, medita il suicidio mentre si auto-convince che l’uomo alla guida, con cui è in una relazione da sei settimane, sia davvero fantastico. Il viaggio è nella campagna innevata dove abitano i genitori di lui, una coppia della cui ignoranza ed esuberanza l’erudito Jake si vergogna, al contrario delle cruente e sanguinose storie di morte legate agli animali della fattoria.

Fin qui è una lunga conversazione infiocchettata da sparse citazioni colte a segnare la ricerca costante di senso per due personaggi perduti e magnifici nei panni di Jessie Buckley e Jesse Plemons. Altrettanto stupendi sono David Thewlis e Toni Collette, a cui tocca il twist kaufmaniano – è ora di trasformarlo in aggettivo – e la rivelazione di un piccolo curioso dettaglio: il tempo in casa di Jake inizia a scorrere senza più alcuna regola e/o direzione.

Un momento sono anziani e ormai senili, l’altro iniziano a parlare del partner come se fosse già morto. A un tratto sono ringiovaniti, subito dopo ingrigiti e la serata assume un tono inquietante e grottesco, con Jake preso da sé stesso e Lucy privata della sua identità: a un certo punto diventa Louise, cambia nome, ride sguaiata come la madre e diventa la compagna di Jake, solo dettaglio che la connoterà verso il finale. Non del film, di Jake.

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La fine, una fine, tutte le fini

Perché sto pensando di finirla qui mi è parso un grido di Kaufman lanciato sin dall’inizio del film: ogni istante potrebbe essere quello giusto per concluderlo. Ai miei occhi Kaufman ha allungato il tempo, trasformando i minuti finali dell’esistenza di Jake in un lungo trip mentale di una persona fallita a cui spetta un ultimo desiderio, quello di una vita differente dove ogni suo puerile sogno si è realizzato contrariamente alla realtà dei fatti.

Ricorda quando aveva una ragazza bella, sveglia e intelligente. Ricorda quando lavorava sui cruciverba e partecipava come un forsennato ai giochi di società. Ricorda i suoi genitori e gli obblighi a cui si è stretto per chissà quale ragione. Ricorda come li trattava con cura, come li giudicava male, come metteva sé stesso su un piedistallo. Ricorda come un ballo la lotta fra il desiderio di una vita ideale e quello che poi è stato, un fallimento completo.

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Nulla di visionario in senso stretto, Kaufman non è Gilliam e il suo scopo non è tanto meravigliare, quanto spingerti sul finale a dare un nome a quei sottili crampi allo stomaco che ti ricordano che sei vivo. Sì, vivo. Ma come, questa è la domanda crudele, per nulla americana, in senso cinematografico, posta dal regista. Kaufman è quell’amico che ti pone domande difficili quando ti è salita la sbronza a depressione.

Giù gli scudi

Hai le difese calate, scudi poggiati alla parete e sei ormai aperto e costretto a rispondere. Sei forse come il maiale lentamente mangiato vivo dai vermi e finito in una pozza di sangue nella stalla? La sola immagine è violenta quanto basta per scuotere chiunque, la scelta di mostrarla in formato animato non fa che acuirne la realtà perché all’animazione rispondiamo con maggior coinvolgimento, richiede una vivida immaginazione.

L’innocente cattiveria di Kaufman a caldo l’ho trovata difettata, quel torrente di citazioni soffocante e alla lunga l’intero film un peso troppo grande da sostenere. È uno di quelli che andrebbero giudicati a freddo, di sicuro per me inferiore a qualsiasi altra opera dello sceneggiatore/regista, ma è il modo in cui ti mangia dentro – sì, proprio come i vermi – che gli conferisce quel valore extra, difficile da attribuirgli al primo impatto.

Sto pensando di finirla qui ti corrode a partire dalle interiora sino ad arrivare al tuo cervello ed un’esperienza dura da mandar giù. Non quanto l’infinita e straziante ricerca di senso all’esistenza di Philip Seymour Hoffman in Synecdoche, ma quel suo lento incedere prima o poi arriverà alla sua destinazione. Vuoi che sia una noia avvolgente o un dolore risvegliato d’imprroviso, Kaufman avrà quasi certamente un influsso negativo sul pubblico.

Questo lo intendo sedendomi su entrambi i poli: bello o brutto. Sto pensando sarà più di altri film soggetto all’oscillazione del nostro umore. Posso solo augurarmi che splenda il sole sulla giornata di chiunque lo abbia visto o debba ancora vederlo, per scacciare la pesantezza da alcuni e la tristezza da altri.

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6 pensieri su “Sto pensando di scriverlo qui

  1. Sapevo che ne avresti parlato! È un film che ho veramente amato così come sono stato felice di rivedere dopo il bellissimo Anomalisa un altra opera di Kaufman. E concordo con te, molte volte da una storia semplice si può parlare di temi profondi e complessi che riguardano la nostra vita e non c’è bisogno di complicare inutilmente la trama per farlo sembrare un lavoro da intellettuale. Kaufman ha sempre sorpreso e ha sempre dimostrato un grande genio e una grande sensibilità. Lo apprezzo molto.

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    1. Esattamente, l’intelligenza, o in questo caso, per me, il genio, si vede con quanta semplicità riesci a veicolare nella forma un messaggio importante. Termine, importante, che intendo nel suo senso di grande rilievo, per chiunque. Alla fine chiunque abbia una testa adatta a porsi domande, da un film del genere può solo trarne… la sua chiave di lettura.

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  2. Un film che sembra essere scritto per chiunque lo guardi. Una cosa davvero sorprendente e inimmaginabile, eppure succede mentre lo si guarda di sentirsi lui o lei o tutti quelli che vediamo sullo schermo. Per me straordinario.

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    1. Io ancora non so se lo trovo straordinario, nel senso di eccelso, come film fuori dall’ordinario invece sono ASSOLUTAMENTE d’accordo. Lo avrei visto con gioia al cinema, probabilmente non ne sarei nemmeno più uscito per la tristezza. Comunque è proprio vero, ci si può sentire come entrambi e, ecco, è quello che intendo con letture diverse per ognuno, è una cosa a cui non avevo pensato e ora l’idea mi affascina. Lo dovrò rivredere!

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