Alex Garland, tra uomo e natura, meraviglia e terrore.
In my dreams I’m dying all the time
Then I wake it’s kaleidoscopic mind
Sulla sabbia bianca come Porcelain incontrammo Alex Garland per la prima volta, sulla riva della Maya Bay in Thailandia nell’incanto mortale di Danny Boyle in The Beach. Fu quell’incontro a trasportare l’allora romanziere debuttante Garland nella fucina di una industria cinematografica sempre affamata di nuovi talenti e nuove storie.
Il suo nome però all’epoca era solo un basato sul libro di e nulla di artistico se non la fonte che portava la sua firma sulla pellicola, ma in tanta banalità quanta di rado se n’è vista nel cinema dello stesso Boyle – forse in coppia col pur gradevole The Millionaire – non è difficile individuare gli ingranaggi che ancora oggi muovono la sensibilità di Garland, come sceneggiatore prima e come regista ai giorni nostri.
Parliamo del sense of wonder, una definizione legata in principio alla narrativa di fantascienza, con particolare riferimento a una delle sue epoche d’oro, il secondo Dopoguerra. È la sensazione di essere sovrastati dalla meraviglia dell’ignoto o dell’irraggiungibile resi da scienza o cultura conosciuti e tangibili. Magari ancora incompresi ma alla portata dei nostri cinque miseri (ah, Eich’Pi’El!) sensi.
Sottomessi alla bellezza
The Beach ha ben poco di fantascientifico nei suoi fotogrammi, tuttavia condivide con la science-fiction uno dei temi a lei più cari, l’abbandono della vita artificiale per ritornare alla natura incontaminata e riscoprire il proprio status all’interno del mito dell’armonia. Werner Herzog sappiamo benissimo cosa ebbe da dire in proposito in Grizzly Man.
Ma Alex Garland non era il solito sprovveduto scrittore new age col pallino in canna pronto per sparare all’uomo a favore di un passatismo infondato, The Beach film non manca infatti di mostrare il suo primitivo timore dinanzi alla bellezza, capace di sferrare dei colpi mortali quando meno ce lo si aspetta. Sotto forma di squalo bianco per esempio, con gli occhi colmi d’indifferenza come gli orsi di Timothy Treadwell.
Così mentre Leonardo DiCaprio si gode la sua fortunata vittoria contro la natura e impone la superiorità dell’uomo definendo lo squalo da lui ammazzato “It’s just a big fish, man!” la famiglia di quest’ultimo si vendica, macchiando la sabbia di porcellana del sangue di uno dei tanti occidentali caduti nella trappola della regressione tecnologica nella Thailandia nascosta diretta dalle macchine da presa di Boyle.
Sei anni dopo
La meraviglia accolta dai versi della Porcelain di Moby aveva dei personaggi specifici a cui mirare e affondare, uomini e donne incoscienti dell’evoluzione dell’uomo. È il processo di ominazione in cui navighiamo inconsapevoli di essere noi stessi il primo prodotto tecnologico, carne e sangue plasmati da scopi tutt’altro che naturali. Volendo possiamo scomodare la nuova carne di David Cronenberg, perché no?
Sprovveduti dunque, in altro modo non si possono definire gli animalisti di 28 giorni dopo, stando alle parole scritte da Garland nel suo esordio alla sceneggiatura per la regia di Boyle. Sono parenti del sangue sparso in The Beach, novelle vittime della loro inconsapevole ingenuità e innocenza, primi infettati dal virus liberato nel raid ai laboratori dove si eseguivano esperimenti su scimmie ancora in vita.
A sei anni dal 1996 di The Beach Garland scrisse un seminale zombie movie sui pericoli nascosti nell’incapacità di riconoscere nell’uomo un suo percorso specifico da rispettare tanto quanto alleato che come avversario mortale. Il sense of wonder se vogliamo trovarlo in 28 giorni dopo scatta per la meraviglia nei confronti della stupidità.
La civiltà regredisce accompagnata dalle note composte da John Murphy per l’occasione e tra le fila dei militari di Christopher Eccleston siamo testimoni della lotta di Cillian Murphy per sopravvivere ai pericoli del passato riemersi con l’assenza di un controllo su se stessi e sul proprio corpo. È inevitabile dunque scovare nel terrore della morte un senso di meraviglia per la riscoperta della vita attraverso di essa.
… quella buona notte
Garland aveva zero intenzioni di entrar lieve nella buona notte di Dylan Thomas, la pulsione di morte nel suo cinema in The Beach e 28 giorni dopo crebbe esponenzialmente e in Sunshine, sempre del suo caro compagno Boyle – un mestierante di altissimo livello, un giorno dovremo ammetterlo in coro – implose senza mezze misure.
La luce è prossima a spegnersi, l’inverno a coprire la Terra nel gelo a cui la morte del Sole la costringerà e solo la seconda missione spaziale Icarus verso la nostra stella potrebbe salvare la vita da una inevitabile estinzione di massa sul nostro pianeta. Riattivare il cuore del Sole con una deflagrazione gigantesca è la soluzione. Stavolta, insomma, è fantascienza al 100% e Garland entra nel suo elemento.
Lo schema però si ripete, è anche questa una battaglia tra uomo e l’indifferenza della natura, combattuta per sovrastarsi a vicenda, e mentre questi piccoli uomini e donne si armano della loro tecnologia il mondo circostante contrattacca con la bellezza. Cliff Curtis è ipnotizzato dalla stupefacente meraviglia del Sole, la sua è una bulimia luminosa trascinata al limite della sopportazione umana.
È a suo modo una violenta storia d’amore quella di Sunshine, tra due innamorati per cui il compromesso è un accordo inaccettabile. Ma sarà l’uomo dei due a essere oscurato dalla meraviglia, ripreso in controluce prima da Danny Boyle poi da Alex Garland, a cominciare da quello che sarà il suo silenzioso e non riconosciuto esordio alla regia, come il suo protagonista Karl Urban ci tiene a sottolineare: Dredd 3D.
La legge è (del) più forte
Col cinecomic di Pete Travis è al secondo adattamento di una storia non sua, Non lasciarmi (2010) e Dredd 3D (2012) appartengono ad altri, ma le recenti indiscrezioni ci impongono di inserire il secondo all’interno di un discorso più ampio, trattandosi molto probabilmente di un debutto in stile ghost writer per Alex Garland. Ciò nonostante entrambi continuano in un certo senso sulla scia uomo vs natura.
Non lasciarmi è la storia di persone coltivate per scopi medici costrette a contemplare il proprio passato fatto esclusivamente di morte, mentre in Dredd 3D l’uomo ha di fatto sconfitto e conquistato la natura, impostando la civiltà su una legge impietosa e priva di misericordia. È la legge del più forte, un tempo della natura. L’uomo si è sovrapposto ad essa e ne ha preso le sembianze. Che Garland fosse affascinato dal giudice è ovvio.
Il sense of wonder assume caratteristiche convenzionali in Dredd 3D in termini tecnici, panoramiche su Mega-City One divise in vedute aeree e anngolature dal basso per disegnare i confini della città al di là del cielo e porre in scala i protagonisti di uno dei migliori action movie prodotti in Europa nell’ultimo decennio. In questi ambienti però la meraviglia ha vita breve, le porte si chiudono e i protagonisti sono in trappola.
Io, uomo
Per cosa celebriamo ogni giorno Alex Garland? Ex Machina. Rubo le prime parole della recensione di Ex Machina pubblicata qui su CineFatti da Francesca Fichera: “Quando si parla di intelligenze artificiali timore e fascinazione si mescolano”. Col successo raggiunto davanti agli occhi l’umanità è sconvolta dalla meraviglia, ma nulla come le A.I. nella sci-fi ci ha insegnato come tale traguardo sia costellato di ombre.
È una serie di cliché Ex Machina, creatura e creatore coinvolti in un gioco di seduzione culminante in un finale da classica tragedia greca. Esattamente come in Dredd 3D la sostituzione alla natura è avvenuta e detta legge, e la lotta si svolge in un ambiente solo all’apparenza a metà tra artificiale e naturale: le foreste, le cascate dove Oscar Isaac accoglie l’ignaro Domhnall Gleeson sono dominate dalla loro presenza.
Troviamo dunque il sense of wonder lontano dalla bellezza delle spiagge, lo stupore sfugge alle dinamiche istintuali della sopravvivenza a squali e zombie e troviamo le tracce nella scultura realizzata dagli uomini. Nella cornice naturale plasmata dal CEO il minuscolo Gleeson cade in estasi tra le braccia del sensazionale atto di creazione compiuto dal suo superiore. Affoga in quella splendente meraviglia.
Picnic sul ciglio della strada
È la terza sceneggiatura non originale per Garland, Annientamento è il primo figlio cresciuto da Jeff VanderMeer, a sua volta debitore nei confronti di Andrej Tarkovskij e della letteratura di fantascienza sovietica su cui i suoi capolavori Solaris e Stalker si basano. Le pagine ospitano tanto i fratelli Boris e Arkadij Strugackij quanto Stanisław Lem, ma è il duo col suo Picnic sul ciglio della strada la fonte principale, è evidente.
Chissà cosa raggiungeremmo in fondo al percorso di scatole cinesi, a noi comunque interessa l’ultima recente aggiunta Netflix diretta da Garland, lontana dall’essere fedele al bestseller adattato con le sue mani. Annientamento si regge sulle premesse del genitore letterario, un oggetto alieno precipita in un’area degli Stati Uniti e produce una zona dove è impossibile comprendere cosa stia accadendo, dove il DNA comunica.
VanderMeer immaginò una squadra di scienziate senza nome, Garland invece preferisce abbozzarle e dare loro volti noti – a partire da Natalie Portman – prima di lanciarle nello Shimmer. Nessuno è mai tornato sano di mente o in salute dall’area conquistata dall’anti-colore venuto dallo spazio e ora poco alla volta gli occhi delle cinque celebrità vedranno l’orrore della natura ibridata e sconvolta anche dal contatto con l’uomo.
Benvenuti nell’antropocene
Lewis Gordon su Little White Lies si chiede se Annientamento sia il primo film dell’antropocene, l’era geologica nella quale viviamo oggi secondo alcuni scienziati e i cui principali sconvolgimenti naturali sono causati dall’uomo.
In Annientamento con Garland arriviamo a un duplice risultato: possiamo leggerlo come lo sradicamento del tumore rappresentato dall’uomo e dunque in un’ottica ecologista, oppure come la definitiva dominazione della natura da parte dell’essere umano, così profonda da partecipare coscientemente al mutamento.
Piccolo spoiler:
Sparisce Josie Radeck, la fisica di Tessa Thompson quando comprende a livello mentale lo sconvolgimento in atto dentro le proprie cellule e lo fa in modo volontario. Accetta il compiersi degli eventi e presumibilmente si unisce agli uomini diventati pianta, al contrario di chi rifiutando è in qualche modo esploso in un mare di sensazioni orribili. L’inferno è lasciare come ultima traccia il terrore provato prima della morte.
Fine spoiler.
Sia il terrore sia l’accettazione Garland le accoglie con una macchina da presa intrisa di stupore e meraviglia, il video che mostra le viscere del soldato muoversi è persino lirico, entusiasta, quanto lo è la realizzazione di Josie. Il sense of wonder è ovunque in Annientamento, è un bagno di luce talmente forte da oscurare qualsiasi altra cosa o persona, un fuoco che finirà per lasciare solamente una silhouette scura.
Possiamo vedere dunque come Alex Garland stia proseguendo su un percorso preciso, descrivendo il rapporto tra l’umanità e la natura coi termini degni di un feroce conflitto. Quando si concluderà è impossibile decifrarlo, perché lo sceneggiatore e regista londinese assegna alla battaglia la forma del simbolo dell’infinito. Ritorna ciclicamente, sotto nuove forme e nuovi nomi, ribalta i ruoli e condanna i suoi pedoni.