Cronaca claustrofobica di una vendetta immobile.
André Øvredal è una voce guadagnatasi il diritto di essere ascoltata per anni dopo averci dato una delle poche ragioni per amare i found footage, la horror comedy Troll Hunter. E questo è già un primo valido motivo per vedere Autopsy.
The Autopsy of Jane Doe per essere esatti, un corpo nudo vestito di indicibili sofferenze da sfogliare con bisturi, divaricatori e tronchesi nello studio del medico legale di Brian Cox e figlio Emile Hirsch, in una notte qualsiasi di orrori senza via di uscita.
Una vendetta cieca
Niente commedia stavolta, il norvegese Øvredal si fa serio e sistema la sua Jane Doe in una location sensazionale, un sotterraneo con un look sobrio anni Sessanta e due personaggi bergmaniani. La razionalità matura di Cox e la sensibilità di Hirsch.
In mezzo un orrore che non ha bisogno né di sangue né di frattaglie per sconvolgere le due visioni del mondo, entrambe frantumate in un terrificante circo del sovrannaturale. La morte portata dalla immobile vendetta della nostra inquietante Jane Doe è inevitabile.
Il dubbio è paura
È un piccolo film con tutti gli elementi al posto giusto, coi suoi classici jump scares dietro l’angolo, però la paura è nell’incertezza soprattutto, prima di Hirsch poi di Cox, due veicoli fantastici con cui Øvredal costruisce un ponte empatico per lo spettatore.
Autopsy nell’evidenziare la quotidianità del rapporto padre e figlio, un affetto privo di conflitti, si fa ancora più spaventoso perché come gli ambienti riflette la normalità cui siamo abituati. Li trasforma, in un certo senso, in elementi mobili della scenografia.
Di questa, la parte migliore, sono gli occhi di Brian Cox.
di Fausto Vernazzani
Voto: 3.5/5