L'uomo che ride - CineFatti

#VenerdìHorror: L’uomo che ride (Paul Leni, 1928)

Chi non ha paura dell’uomo che ride?

Qualche settimana fa si ricordava il genetliaco di Conrad Veidt: il Cesare del Gabinetto del Dottor Caligari, il maggiore Strasser di Casablanca. E il Gwynplaine de L’uomo che ride, forse più di tutto.

L’assenza di Lon Chaney,  che avrebbe dovuto essere al suo posto ma era impegnato su un altro set, non si fa rimpiangere: il volto affilato di Veidt sposa meglio con la storia e il suo personaggio principale.

Ne accoglie i contrasti, i primi piani da incubo, la fantasmagoria espressionista, come se ne fosse il figlio. Figlio dello schermo del primo Novecento, da Wiene a Murnau.

Le colpe dei padri

Mentre il clown dall’orrendo ghigno protagonista del libro di Victor Hugo, qui adattato da Paul Leni, è figlio della sventura. Di un traditore, secondo il re Giacomo II e il suo consigliere “dai falsi sorrisi” Barkilphedro (che tanto ricorda Jago). 

Così la (presunta) colpa del padre ricade sul piccolo Gwynplaine, venduto dalla corte alla banda dei comprachicos e da questi ultimi orribilmente sfigurato.

Il suo è un destino da fenomeno precedente alla rivoluzione cinematografica del Gabba-gabba hey! di Tod Browning. Si direbbe anzi che ne spiani la strada. Perché L’uomo che ride ospita la stessa morbosità, lo stesso contrasto fra voglia e ribrezzo che Leslie Fiedler ha evidenziato in Freaks.

L’amore, la morte e una risata 

Barkilphedro, in soggettiva, spia il corpo nudo della duchessa dal buco della serratura, per poi ridere con lei delle proprie allusioni. Dall’altro capo del regno il povero Gwynplaine affronta l’ilarità della folla con la sola forza dello sguardo: lo sguardo di Veidt. E quando scorge una donna in platea che sembra desiderarlo anziché deriderlo, torna a sperare.

Ma poi finirà col dire al suo fidato cane Homo: “Ha riso anche lei, come tutti gli altri“. Soltanto l’amore ha il potere di guardare realmente oltre, come fa la sua Dea (un’angelica Mary Philbin) cieca sin dalla nascita.

Con gli occhi del mostro

Gli occhi sono tutto o sono niente, nel film di Leni. Chi guarda può ridere, chi è guardato deve farlo. E quand’è che l’uomo dal sorriso eterno riderà davvero? Lontano dagli occhi della folla, vicino a quelli del cuore. Che è dove punta e colpisce questa intramontabile storia di mostruosità umane in cerca di pace.

La stessa che non siamo mai certi di trovare e ci rende inquieti e inquietanti come l’uomo che ride nel momento in cui la sua faccia spezzata si rivolge agli spalti. Ispirando il Joker di Batman e, ancora di più, i nostri sogni peggiori.

Francesca Fichera

Voto: 5/5

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5 pensieri su “#VenerdìHorror: L’uomo che ride (Paul Leni, 1928)

  1. Nonostante ami poco i film muti, questo mi é piaciuto moltissimo, anche per la bravura dell’attore protagonista nei panni di Gwnplaine che nonostante il perenne ghigno sul suo volto riesce a comunicare tutti i sentimenti richiesti, anche la tristezza. Sono in disaccordo peró nel ritenerlo un film horror, in quanto secondo me punta piú sul dramma che sulla paura(che comunque é presente nel film). :)

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    1. In realtà è spesso catalogato come horror, cosa che mi ha consentito di sceglierlo per questa rubrica e anche che in buona parte condivido, per via delle atmosfere gotiche e della presenza dell’elemento mostruoso – che esula dalle forme consuete e più “dichiarate”. E tuttavia concordo con te, è evidente che il dramma sia l’anima dominante (Hugo, del resto, non scherza mica!) del film, che unitamente alle suggestioni di genere lo rende unico e perfetto sotto qualsiasi punto di vista.

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      1. Grazie della risposta. Sí infatti io non volevo le atmosfere e l’elemento mostruoso presenti nel film, solo mettere al centro il dramma che trovo predominante. Contento di averlo scoperto, se non avessi visto la recensione, dubito che lo avrei visto, dato che non dó molto peso ai film muti. :)

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      2. Ma figurati, grazie a te! A dispetto della distanza dal nostro mondo ipersonoro, il cinema muto resta un bellissimo universo da scoprire.

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