L’incolmabile vuoto di Manchester by the Sea – di Elvira Del Guercio.
Presentato da Kenneth Lonergan all’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, Manchester by the Sea esordisce con un assordante silenzio di sottofondo dentro cui annaspa l’esistenza disillusa di Lee Chandler (interpretato da un sorprendente Casey Affleck).
Il senso di frammentarietà che lascia trapelare l’ordine sparso delle scene di Manchester by the Sea, la cui successione non è dettata da un’usuale cronologia, sembra riflettersi nell’anima spezzata del protagonista e nel suo movimento erratico, desideroso soltanto di frantumarsi in mille pezzi al richiamo della vita.
Sarà l’improvvisa morte di suo fratello Joe (Kyle Chandler) ad accendere dentro di lui la misteriosa fiamma che lo riporterà a quei ricordi che avrebbe tanto voluto rimanessero nella più indefinita opacità.
In virtù dell’onere di prendersi cura del nipote Patrick (Lucas Hedges) a Manchester by the Sea, si potrebbe ipotizzare una sorta di risveglio o richiamo all’agire; tuttavia, ritornare alla vita come il protagonista dell’ultimo film di Wes Anderson, dopo la presa di coscienza di un senso di colpa così profondo, risulta impossibile.
Non esiste nessun’altra verità se non quella dell’ineffabilità della sorte e del dramma esistenziale: tutto è chiuso, per il protagonista e tutto si limita al microcosmo di Manchester by the Sea. Un mondo, quello del film, descritto con toni non molto chiari che spaziano da elementi propri della tragedia (scene dotate, quindi, di un forte pathos) e destabilizzanti momenti rivisitati in chiave comica, quasi non si riuscisse a capire il vero intento dell’autore:
Drammatizzare o sdrammatizzare?
Manchester by the Sea è un pendolo che oscilla tra queste due estremità. Una regia non pretenziosa né particolarmente complessa quella di Kenneth Lonergan, volto, piuttosto, a fermare la tragicità di determinati momenti con primi piani attraverso cui il terzo occhio sembra voler entrare integralmente all’interno della sofferenza del protagonista.
Casey Affleck è perfettamente coerente con la descrizione proposta poc’anzi: gelido e impenetrabile, provvisto di una ormai invalicabile corazza di sostentamento. Tale involucro però gli impedirà, in maniera del tutto radicale, di provare perfino a costruirsi un’alternativa alla sua non-vita, tanta è la paura e tanto è l’insuperabile dolore.
Lee è il fautore del suo stesso eterno ritorno dell’uguale, della monotonia e quotidianità per una scelta il cui valore dipende solo ed esclusivamente dalle possibilità che gli vengono offerte dalla vita. E in tal caso, non sembrano esserci vie d’uscita.
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