A 30 secondi dalla fine – la recensione di Francesca Paciulli.
Come si esce da tre anni di isolamento in un carcere di massima sicurezza? Nel caso di Oscar Mannheimer (Jon Voight) con ghigno feroce e strafottente, muscoli allenati e nervi saldi. In quel
periodo di riflessione forzata ha avuto modo e tempo di ideare un piano per evadere e rifarsi una vita lontano dall’Alaska, trovando un onesto lavoro da lavapiatti in una tavola calda (il massimo a
cui possiamo aspirare, spiega a un giovane e scalpitante compagno di detenzione).
Detto fatto: dieci minuti dopo i titoli di testa il detenuto trova la complicità del giovane e irruente Buck (Eric Roberts), sbuca nella lavanderia del carcere nascosto nel solito cesto della biancheria
sporca, si cala in un tombino cosparso di grasso per proteggersi dal freddo e dice addio alle sbarre.
Parte come il più classico dei film carcerari e prosegue come il più convincente dei film d’azione, con tanto di fuga tra i ghiacci, scazzottate, inseguimenti in elicottero, deragliamenti sfiorati: due generi in uno per una pellicola che avvicina la Russia agli Stati Uniti, con il beneplacito del Giappone.
A 30 secondi dalla fine è il secondo film in terra americana del russo Andrej Končalovskij (il primo, Maria’s Lovers, ottenne un discreto successo internazionale anche grazie alla presenza della sensuale icona anni Ottanta Nastassja Kinski), ma lo spunto di partenza è un soggetto inedito di Akira Kurosawa.
Scene e scenari
Il film è ambientato e girato in Alaska ed il bianco abbacinante che avvolge la suggestiva entrata in scena del “runaway train” del titolo è uno dei suoi grandi protagonisti al pari dei due interpreti
principali, entrambi candidati agli Oscar come migliore attore protagonista e non protagonista.
Uno sbuffo bianco di neve e il treno sfreccia sui binari del deposito della stazione (il macchinista è appena stato colpito da un attacco di cuore e non c’è nessuno a alla guida), rivelandosi ai due
evasi in cerca di una seconda occasione o, nel caso si Manny, di un modo per rendersi invisibile allo sguardo degli altri.
L’importante è lasciarsi alle spalle il carcere e il tirannico direttore Ranken convinto – parola sua – di essere secondo solo a Dio. Non ha fatto i conti però con il treno lanciato a folle velocità e con la
voglia di libertà di Manny, Buck e della loro inattesa alleata (Rebecca De Mornay).
Tanta azione e altrettanto machismo – le donne, eccezion fatta per il personaggio risoluto della De Mornay, sono relegate al ruolo di segretarie belle e sciocche o bambole senza volto sulle riviste
porno – in un film che potrebbe prestarsi anche ad una più filosofica seconda lettura: l’uomo che, come il treno impazzito, vaga senza meta in preda al suo destino.
Alla sottoscritta, in realtà, bastano e avanzano anche solo la dimensione puramente action e il ritmo che tiene alta la tensione fino all’ultima inquadratura. Merito del montaggio serrato di Henry Richardson (candidato all’Oscar per questo film) che ci fa salire sul treno in fuga insieme al solitario Manny e allo sbruffone Buck, curiosi di sapere cosa succederà a trenta secondi dalla fine.