Il selvaggio - CineFatti

Il selvaggio (László Benedek, 1953)

Il selvaggio Marlon Brando – di Francesca Fichera.

Chi ha letto Uomini e topi di John Steinbeck, probabilmente amerà un film come Il selvaggio. Non perché le due cose siano paragonabili direttamente, beninteso – a parte la dimensione di classico cui entrambi i testi appartengono – ma per il senso nascosto in ciascuno di loro. Mai messo in mostra, solo narrato.

E il László Benedek ispirato da Frank Rooney non fa altro che raccontare. Senza abbellire, perché tanto a quello pensa la recitazione, fuori dagli schemi, di Marlon Brandothe Wild One, il selvaggio Johnny Strabler, anche voce narrante.

Il film si apre su una strada, guardando in soggettiva a un orizzonte in movimento: “avevamo perso la testa”, dice il narratore, e l’angoscia, anche se fuori campo, è già palpabile. Perché chi sta parlando e sfrecciando sull’asfalto ha vissuto qualcosa di tremendo, che noi ancora ignoriamo, e su cui Il selvaggio farà luce.

Ed eccoli lì, i ragazzacci in motocicletta capitanati da Johnny, che si aggiudicano trofei alle corse clandestine e corrono a festeggiare in birreria, provocando, fischiando e schiamazzando. Ma la rissa è sempre dietro l’angolo, soprattutto se ad innescarla è una banda rivale, quella di Chino (Lee Marvin); così le cose precipitano – come spesso avviene – nel meno prevedibile dei modi.

D’altra parte, l’amore ha la velocità di uno sguardo, la profondità di occhi destinati a dire tutto quello che la bocca tace e che perciò cambiano forma a seconda di ciò su cui si poggiano: una sfumatura che soltanto un interprete del calibro di Brando avrebbe potuto rendere così perfettamente.

Dall’inizio alla fine, lui è l’unico e solo selvaggio che incarna, nella sua fisicità massiccia (passata alla storia delle icone con l’immagine che vedete in copertina), tutta la crudezza e la violenza del dramma degli ultimi: quelli di cui la gente non si fida, che respinge fino ad esserne respinta a propria volta. In una parola, i capri espiatori.

E tuttavia, al contrario che in Steinbeck o, per citare un film altrettanto imperdibile, nel tragico Nick mano freddaIl selvaggio mette in salvo la speranza. Che quell’uomo che le prendeva “più dure da suo padre” – un dettaglio, una battuta piccola e veloce, ma più lunga di un romanzo – possa tornare a sorridere. Più di una volta.

 

2 pensieri su “Il selvaggio (László Benedek, 1953)

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