di Victor Musetti.
Conclusa l’indimenticabile trilogia su Pinochet con il successo planetario di No – I giorni dell’arcobaleno, Pablo Larraín si è deciso a tornare a quel cinema sporco e spietato che lo aveva reso famoso nel mondo con i suoi bellissimi Tony Manero e Post Mortem. Il Club, premiato con l’Orso d’Argento a Berlino, lo riporta infatti ai suoi temi più cari: la sessualità promiscua, i personaggi indecifrabili e la violenza oppressiva di un’autorità invisibile al di sopra di tutto e di tutti, che se prima era rappresentata dalla dittatura di Pinochet, qui è incarnata in modo piuttosto analogo dalla Chiesa Cattolica.
Tornano immancabilmente anche i suoi attori feticci Alfredo Castro nel ruolo di Padre Vidal e Antonia Zegers nell’unica parte femminile di rilievo del film, Sorella Monica. Entrambi sono membri, insieme ad altre tre persone, di una piccola comunità di preti in villeggiatura a La Boca, un paesino di pescatori sulla costa cilena. Ognuno di loro ha avuto a che fare con scandali di vario tipo, perlopiù legati all’abuso di minori e alla pedofilia. Per questo motivo sono stati mandati lì a condurre una vita di preghiera e penitenza, lontani dagli scandali e dall’attenzione mediatica. La loro quiete però viene messa a repentaglio dall’arrivo di un nuovo prete, Padre Lazcano, che porterà con sé una reazione a catena di ospiti indesiderati: il pescatore ubriacone Sandokan e il prete investigatore Padre Garcìa.
La prima cosa inedita che salta all’occhio ne Il Club è senz’altro la sua struttura corale. Si tratta infatti della prima volta che Larraín non focalizza la sua storia su di un personaggio solo. E il mondo che crea attorno a questo piccolo microcosmo è senza dubbio molto meno realistico che in passato, dove ci si rifaceva perlopiù a situazioni storiche ben definite nello spazio e nel tempo. Per la prima volta Larraín crea un universo totalmente immaginario, seppur ispirandosi a fatti esistenti. Ed è forse questa la sfida maggiore del film, che da subito si impone come un oggetto stilisticamente e concettualmente fortissimo, a partire dall’incredibile costruzione del mistero attorno ai personaggi sin dall’inizio del film e soprattutto per alcune scelte non proprio usuali dal punto di vista estetico.
La fotografia de Il Club, firmata dal fido Sergio Armstrong (da poco visto al lavoro su Ti guardo di Lorenzo Vigas), è infatti l’ennesima prova di quanto Larraín abbia a cuore il fatto di rendere i suoi film così volutamente antiestetici. Girato in un digitale spesso rumorosissimo e in molte inquadrature con il solo utilizzo di luci naturali, si sente molto la volontà di creare qualcosa di visivamente unico. Affascina per esempio la scelta di utilizzare degli obbiettivi grandangolari anamorfici per dei primi piani ravvicinatissimi dei preti, che deformano i loro visi accentuandone in un certo senso la mostruosità ai nostri occhi, un po’ come a simboleggiare che il male è negli occhi di chi lo guarda.
Se da una parte quindi Il Club riporta il cinema di Larraín alla complessità degli esordi, con dei personaggi misteriosi (su tutti il meraviglioso Sandokan) con cui empatizzare pur essendo mostruosi per le loro azioni, dall’altro si nota una cura molto minore dal punto di vista della sceneggiatura, tanto che lasciano un po’ l’amaro in bocca alcune soluzioni semplicistiche per risolvere una situazione verso la fine del film. Larraín è visibilmente innamorato del mondo che ha creato, ma non riesce a prenderne sufficientemente le distanze per sconvolgerne le regole. Resteranno comunque impresse nella memoria le confessioni di questi cinque incredibili personaggi (sei se vi si aggiunge Sandokan) e una scena di sodomia che riassume da sola il dramma di un trauma infantile sino ad oggi mai raccontato in modo così realistico e disturbante.