Se facciamo attenzione e ci avvolgiamo nel silenzio, possiamo ancora udire l’eco del successo di Ringo Lam e della sua Hong Kong insozzata dalle tematiche più controverse a lui così care. City on Fire, è arcinoto, fu padre, coi Cani arrabbiati di Mario Bava, de Le iene di Quentin Tarantino, ma ben presto il successo lo risucchiò a Hollywood per far da regista a Jean-Claude Van Demme. Poi finì, nel 2003 l’ultimo film, nel 2007 la partecipazione a Triangle insieme ad Hark Tsui e Johnnie To e solo oggi, nel 2015, il ritorno.
Wild City non è un parente stretto della serie on Fire degli anni Ottanta/Novanta, ne è piuttosto il figlio, cresciuto con gli stessi valori, ma contaminato dalle sensazioni e gli ambienti del nuovo millennio. A Hong Kong ci ritroviamo con Louis Koo/T-Man, ex-poliziotto oggi proprietario di un locale tranquillo, travolto per puro caso, insieme a suo fratello Shawn Yue/Siu-hung, dalle disavventure di Tong Liya/Yun, giovane ragazza braccata da un branco di criminali taiwanesi, abbandonata dal fidanzato al suo destino.
Sa di Hitchcock a guardarlo da lontano, uomini innocenti coinvolti loro malgrado nella disperazione di un’altra persona, spinti a rimanere al suo fianco da un sopito senso di lealtà verso una forma ormai morta di giustizia. Qui Lam dà sfogo a se stesso, a voce nel prologo e nell’epilogo con una sorta di pamphlet sull’avidità e il potere dei soldi, nellazione mescolando due fratelli, entrambi ex, uno dalla legalità, laltro dall’illegalità, all’interno di un contesto sociale abbandonato a se stesso, con regole incapaci di reggere il confronto.
Purtroppo a veicolare il forte messaggio di Lam sono più le parole e un paio di riuscite immagini didascaliche – la statua della giustizia mutilata dai proiettili. Così facendo il senso ultimo di Wild City sbiadisce dietro il bisogno più contemporaneo di azione nel cinema di Hong Kong (Helios, Cold War, Z Storm, un iper-produzione di action thriller ad alto budget negli ultimi anni), senza alcun dubbio l’aspetto migliore di tutto il film. In tal senso Ringo Lam, come George Miller con Mad Max: Fury Road, dimostra di essere ancora all’altezza.
Gli inseguimenti in auto, anche quando brevi, sono puro spettacolo, un’iniezione lampo di adrenalina tale da schiantare lo spettatore con forza contro lo schienale della poltrona. Idem per quanto riguarda i combattimenti, le corse in giro per la città e i dialoghi stessi, dove eccelle la più giovane star Shawn Yue, mentre Louis Koo copre lo schermo col proprio consolidato carisma e Tong Liya e il villain Joseph Chang sfuggono alla loro mera funzione fisica per spiccare il volo e rimanere impressi nella memoria.
Tong Liya in particolare, nonostante la sua funzione sia quella di McGuffin, per dirla à la Hitchcock, riesce a spuntar fuori e a non essere soltanto la necessaria presenza femminile. Fuoriuscire dagli schemi è la parola chiave di Wild City e per quanto il difetto principale sia incancellabile, il grande ritorno di Ringo Lam si pone senza alcun dubbio una spanna più in alto di mega-blockbuster come Helios, proprio grazie al suo cuore ideologico. Sfidiamo chiunque a non rimaner impressionati dall’efficacia di alcune sequenze.
In conclusione Wild City, insieme a Mad Max: Fury Road, è lo strumento adatto per comprendere le mutazioni avvenute nel cinema negli ultimo trent’anni. Attraverso due autori di cinema popolare carico di messaggi, ci rendiamo conto con più facilità delle richieste del pubblico, di quanto e come si debba oggi restituire agli spettatori in termini di immagini. L’azione diventa preponderante e il significato deve farsi strada dentro di essa. Entrambi al loro ritorno riescono a gridare con fermezza: si può (ancora) fare.
Fausto Vernazzani
Voto: 4/5