Yakuza Apocalypse (Takashi Miike, 2015)

di Fausto Vernazzani.

Quel finale di Dead or Alive, con Riki Takeuchi a contemplare la sfera d’energia appena estratta dal proprio petto prima dello scontro finale. Gli Yakuza di Takashi Miike non sono di questo mondo, almeno non sempre. Lo dimostra il cult suddetto, datato anno 1999 e con due sequel all’attivo, e, forse più di ogni altro, la sua ultimissima follia cinematografica, il divertentissimo Yakuza Apocalypse. Chiariamolo subito: se il cinema d’azione stracolmo di assurdità non fa al caso vostro date comunque una chance Yakuza Apocalypse, nel caso contrario è certo che ve ne innamorerete seduta stante.

Ci incontriamo con Miike in un piccolo villaggio da qualche parte nel Giappone, la gente vive in armonia col clan Yakuza di Kamiura/Lily Franky, per il boss malavitoso solo sorrisi sinceri e amore. Il mondo sembra perfetto e il capo per il giovane Kagayama/Hayato Ichihara è un esempio da seguire, anche in quello strano bar gestito da Den Den dove gli viene servito un bicchiere di un liquido rosso fresco. È sangue umano, Kamiura è un Vampiro Yakuza e quando un cacciatore arriverà insieme alla sua spalla/Yayan Ruhian, cambieranno tante cose nel villaggio. Kagayama per primo.

Sconfitto Kamiura, la testa del boss, staccata dal corpo, morde Kagayama, trasformandolo in un Vampiro Yakuza e con la scoperta della sete di sangue il vampirismo yakuza dilagherà come un’infezione. Appena morsi diventeranno tutti Yakuza Vampiri, mettendo a soqquadro la città e lasciando gli Yakuza umani con un dilemma: se non ci sono umani, a chi potranno mai chiedere il pizzo? E soprattutto come “sopravvivere”? La risposta giace in un fetido Kappa e nei suoi amici, tra cui la creatura più temibile di sempre, un eroe terrorista spaventoso contro cui Kagayama dovrà battersi.

 

Ebbene sì, Yakuza Apocalypse è assurdo, ma è anche un film molto personale. Takashi Miike parla a se stesso, a un cineasta maturo uscito fuori da numerose produzioni ad alto budget (persino un dramma sentimentale, Lion Standing Against the Wind) e le parole che si rivolge sono le seguenti: “Stay Foolish”. Letteralmente. Non per citare Steve Jobs e il suo imperativo alle “nuove generazioni” creative, piuttosto per richiamare gli anni in cui girava anche sei pellicole all’anno, con pochi soldi e una libertà creativa che gli consentiva di spaziare tra più elementi di suo gradimento.

L’azione in questo caso non manca, affermare il contrario sarebbe una blasfemia nei confronti di uno dei nuovi maestri delle arti marziali al cinema, Yayan Ruhian, il Mad Dog di The Raid e The Raid: Berandal, spettacolare in quei minuti dove gli è concesso esprimere il proprio immenso talento nel silat. Affianco all’azione abbiamo il mondo di Miike, con citazioni agli spaghetti western da lui amati (ricordate Sukiyaki Western Django?), uno su tutti Django, con la sua bara, e i ricordi di infanzia: peluche imbottiti dall’oscuro futuro post-infanzia e prigionieri formanti classi di uncinetto.

Entrambi gli elementi costituiscono il top di Yakuza Apocalypse, a partire dalla scena dei piedi schiacciati nella classe di cucito, con un Miike visibilmente divertito dall’idea di poter accontentare i propri “istinti”, simili per certi versi alle bizzarrie di un altro – successivo – maestro giapponese contemporaneo, Hitoshi Matsumoto. Sul piano registico non si torna però indietro agli anni degli esordi, Miike è in crescita e la sua tecnica registica con lui, portandoci persino a un livello superiore  e dandoci modo di affermare che Yakuza Apocalypse è il suo miglior film dai tempi di Hara Kiri. Questo senza nulla togliere a titoli davvero godibili come As the Gods Will e Lesson of Evil e anche ricordandoci che con Miike, dire qualcosa come “dai tempi di” equivale a soli 4 anni fa. Un mostro, in senso positivo.

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