di Victor Musetti.
Nella recensione di Non essere cattivo si era parlato di un Taxi Driver neorealista arrivando a citare, sfiorando il blasfemo, Martin Scorsese e Pier Paolo Pasolini in uno stesso articolo. Jacques Audiard (Il profeta, Un sapore di ruggine e ossa) però aveva già vinto in tempi non sospetti una Palma d’Oro a Cannes con questo Dheepan, furbissimo melodramma sul tema dell’immigrazione clandestina con derive violente da cinema di genere, scatenando critiche e malumori da chi non lo riteneva un vincitore forte quanto il presunto vero capolavoro del concorso Son of Saul.
Deephan è la storia romanzata e reinventata di Antonythasan Jesuthasan, l’attore protagonista, ex combattente delle Tigri Tamil in Sri Lanka che decide improvvisamente di fuggire dal proprio paese in cerca di salvezza. Trovati i passaporti falsi e una famiglia fittizia con cui presentare richiesta di asilo nel paese di arrivo, sbarca in Francia dove si mette a lavorare come venditore ambulante. La sua finta moglie comincia però a voler partire per l’Inghilterra quando Dheepan inizia a lavorare come guardiano in un palazzo abitato e comandato da una gang criminale. Mentre cerca di tenere unita la sua piccola famiglia però Dheepan si trova in mezzo ad una nuova guerra: quella tra bande locali della periferia in cui vive.
Antonythasan Jesuthasan non è un attore e la storia raccontata nel film è vera, a detta sua, al 50 per cento. Jacques Audiard, non volendo fare un film drammatico sulla condizione degli immigrati in Francia, salta efficacemente molti passaggi chiave, come ad esempio il viaggio in nave dei migranti e molti dettagli del loro lavoro come venditori ambulanti, facendosi bastare pochissimi elementi per chiarire il suo punto di vista sulla realtà di cui tratta. Basta quindi una semplice e suggestiva idea visiva per riassumere l’enorme contrasto del passaggio dalla vita di soldato a quella di venditore di gadget e orecchie luminose, senza bisogno di conferire ulteriore spettacolarizzazione al repertorio già esistente e altamente abusato dai mezzi di informazione di immagini dei viaggi in mare compiuti dai profughi.
Chiaramente non si può dire che in Dheepan non vi sia alcuna volontà di rapportarsi con il sociale, anche perché buona parte del film tratta proprio del problema dell’integrazione in una cultura completamente diversa dalla propria, a partire da Deephan stesso che, nonostante riesca a padroneggiare in breve tempo l’uso della lingua francese, si interroga sul perché non riesca a coglierne in alcun modo il senso dell’umorismo. E c’è anche un bel passaggio in cui a Audiard bastano due sole battute, dette dall’insegnante della scuola elementare della figlia fittizia di Dheepan, per riassumere l’intera questione della superiorità culturale dell’occidente nei confronti di qualsiasi cultura estranea alla propria.
E proprio nel bel mezzo di questa cronaca sofferta, appassionante e colma di verità, Audiard decide ad un certo punto di spiazzare tutti prendendo una direzione completamente diversa da quella intrapresa all’inizio del film. Ed è così che Dheepan, che fino a quel momento sembrava quasi un film dei Dardenne, finisce per diventare un vero e proprio Taxi Driver, con una scena finale pazzesca e violentissima. Audiard utilizza i mezzi del grande cinema d’intrattenimento con qualità registiche fuori dall’ordinario e riesce, un po’ come faceva Tarantino con il revisionismo storico di Django Unchained e Bastardi Senza Gloria, a plasmare gli aspetti della realtà che non gli vanno a genio. La differenza è che Audiard agisce nel presente e l’esplosione vendicativa di Dheepan negli ultimi venti minuti di film riesce non solo a riscattare cinematograficamente un’intera categoria umana e sociale, ma soprattutto raggiunge l’obbiettivo massimo che il cinema si possa prefissare: quello di dare ai suoi spettatori l’illusione temporanea di aver riscattato il mondo dalle sue irrisolvibili ingiustizie.