Z for Zachariah (Craig Zobel, 2015)

Z for Zachariah: il vangelo secondo Craig Zobel.

Parlare di post-apocalittico oggi ha un prezzo: è impossibile non citare The Road, il libro scritto da Cormac McCarthy e portato al cinema, con grandiosi risultati, da John Hillcoat. Ma con in mano il terzo film di Craig Zobel possiamo essere certi di poterci permettere un gesto violento: spazzare via dalla nostra memoria l’immagine di Viggo Mortensen.

Z for Zachariah lascia sul ciglio della strada il trittico che ha segnato il post-apocalittico contemporaneo: gretto, sporco, disperato.

La storia

Come il titolo lascia presumere, l’atmosfera voluta da Zobel rimanda alla Bibbia, a uno dei profeti più in voga nell’Antico Testamento, e proprio a esso sembra ispirato l’Eden Neo-Zelandese in cui ci troviamo in Z for Zachariah. In un futuro prossimo imprecisato, le radiazioni hanno spazzato via la vita dalla Terra, eccetto in un’area montagnosa dove Annie, giovane donna del Sud, coltiva e vive in solitudine pregando per i suoi conoscenti e familiari. Poi arriva John Loomis.

Loomis è uno scienziato, ha vagato per la Terra indossando una tuta protettiva nell’attesa di poter riposare le proprie stanche membra in un luogo incontaminato come le alture di Annie. Lì con lei riscopre la gioia di vivere, il sogno di ricostruire (la profezia di una Terra Promessa). Tutto diverrà più difficile con l’arrivo di un secondo uomo: Caleb. Giovane, attraente e accomunato ad Annie dalla fede nella religione cristiana. Presto il demone della gelosia si abbatterà su Loomis.

Un grande Iago

Stilisticamente Z for Zachariah non punta in alto. Le immagini di Tim Orr sfruttano al massimo il paesaggio neozelandese, contrastano le nubi ponendosi al di sopra di esse e danno luce alle notti senza elettricità, e Zobel non sembra desiderare altro al di fuori di questo. La sua attenzione è tutta sugli attori, una tripletta dominata dal magnificente Chiwetel Ejiofor (Loomis), da solo capace di mantenere ritto in piedi il film accanto a Chris Pine (Caleb) e Annie (Margot Robbie).

Ejiofor, reduce dalle riprese di 12 anni schiavo, in Z for Zachariah getta tutto il dolore e la paura su cui ha potuto esercitarsi grazie a Steve McQueen:in poche inquadrature è capace di conferire umanità a se stesso, chi gli sta intorno, gli immobili monti e i silenziosi alberi. Una fortuna che Pine e Robbie si siano dimostrati superiori alle interpretazioni che li hanno resi famosi, The Wolf of Wall Street per lei e il franchise di Star Trek per lui, riuscendo a reggere il gioco di Ejiofor.

Non fermatevi alle apparenze

Religione, razza e sentimenti antichi come il mondo si intrecciano, talvolta Z for Zachariah dà l’impressione di inciampare sugli innumerevoli fili sparsi da se stesso, ma Zobel riesce a gestirli, a dare importanza ora a uno ora all’altro. Lo sfondo colorato dai mille delicati fronzoli narrativi è uno splendido affresco su cui poggia la principale tematica religiosa, rappresentata a mo’ di Otello scespiriano, col Moro e il mostro Calibano a giocare a tempi alterni nel ruolo di Iago.

Può apparire come un film spento, scarno e mai sensazioni furono più sbagliate. Il tempo di riflettere sugli eventi di Z for Zachariah più ci si rende conto di quanto la sceneggiatura di Nissar Modi, sul libro di Robert C. O’Brien, sia andata a scavare in profondità senza rinunciare a nulla. L’ultimo Zobel, produttore inspiegabilmente legato al sopravvalutato David Gordon Green, è un post-apocalittico degno d’esser menzionato in future discussioni sul genere tanto quanto The Road.

Fausto Vernazzani

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