di Francesca Fichera.
Se ti capita di guardare un film come Rush – su uno sportivo piegato dalla sorte – nello stesso giorno in cui hai visto un film quale invece è The Program – dov’è la sorte ad essere piegata dallo sportivo – il secondo non reggerà il confronto con il primo, che assumerà il senso e il potere di una boccata d’aria.
Al di là di qualsiasi paragone, comunque, il chiacchieratissimo biopic di Stephen Frears – che avevamo lasciato fra le atmosfere discrete di Philomena, dove avrebbe fatto meglio a rimanere – non regge il confronto neanche con se stesso: l’accattivante campagna di marketing, la familiarità del cast e il tema scottante non fanno infatti che peggiorare il discorso delle aspettative, portando queste ultime a un’altezza dalla quale la caduta non potrà che fare più male.
Ma vediamo perché.
Ben Forster è chiamato a interpretare, per un’abbondante ora e mezza, il controverso personaggio di Lance Armstrong, stella del ciclismo tristemente nota per aver vinto sotto doping ben sette Tour De France. Il (falso) successo, arrivato dopo il cancro, elevò il ciclista a icona mondiale e modello di vita per milioni di cancer survivor; e, proprio come le aspettative riguardanti il film, contribuì a rendere ancora più tremenda la sua discesa negli abissi della vergogna, con la confessione televisiva durante lo show di Oprah Winfrey.
Ispirandosi al libro biografico del giornalista David Walsh (nel film Chris O’Dowd), The Program inscena per filo e per segno (quasi) tutta la storia, the rise and fall di un (diciamocelo) farabutto che, fatta eccezione per la parentesi dedicata al racconto della malattia, non suggerisce la benché minima forma di compassione. Ma superando l’ovvia scabrosità di uno scandalo che ha spezzato letteralmente il cuore del mondo, è il ‘come’ del biografico di Frears a – per restar nella metafora – non ingranare la marcia giusta.
Atmosfere vintage per i titoli di testa e il solito, scolastico mix di materiale d’archivio e ricostruzioni si alternano a un’infinita ed estenuante sequela di primissimi piani, sottolineatura didascalica, e dunque fine a se stessa, della deformità di Armstrong e della sua storia, colleghi inclusi. Come se non bastasse, e proprio quando sullo schermo arriva Dustin Hoffmann (nei panni dell’assicuratore frodato dall’atleta), i dosaggi di luce si rivelano degni della peggiore smarmellatura di Biascica. E sono altrettanto evidenti gli svarioni dello script, fra i quali brilla per originalità l’irruzione a mano armata dei finanzieri italiani nella villa del medico sportivo Michele Ferrari (Guillaume Canet).
Completa il quadro del (fallito) tentativo di “piacioneria” di The Program la recitazione di Forster: modestamente intensa sulle prime battute, col tempo si carica della stessa, ridicola enfasi che impregna la pellicola dal primo all’ultimo secondo della sua durata. Verso la conclusione, che chiude inaspettatamente su di uno dei papabili momenti clou di tutta la vicenda, la sensazione è quella di avere davanti un ghetto boy incazzato piuttosto che un uomo autodistrutto.